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Questo articolo è stato pubblicato il 14 agosto 2011 alle ore 20:54.

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GAZA - La Striscia di Gaza è uno dei posti a maggiore densità abitativa del pianeta. L'acqua che scorre dai rubinetti è salata. Frutteti e palmeti si sono trasformati in deserto man mano che il cemento prendeva il posto delle tende dei rifugiati del 1948 e di quelli del 1967. Gli spazi verdi si sono ulteriormente ridotti per effetto delle successive incursioni militari israeliane, che si sono portate via vite umane e infrastrutture. Tuttavia, in questo mese di Ramadan del 2011 non si registrano carenze nei negozi o nei mercati. Un problema di cui tutti si lamentano sono i continui black-out elettrici.

A Gaza non manca il cibo, ma la libertà. Non solo per effetto della chiusura dei confini imposto da Israele, come dall'Egitto. I palestinesi della Striscia vivono sotto la lente d'ingrandimento di Hamas. Per lasciare la Striscia non serve solo il permesso israeliano o quello del Cairo, ma anche quello del governo islamico. Dopo la riapertura dei valichi della Striscia da cui passano le merci, per effetto della crisi diplomatica scoppiata tra Israele e Turchia in seguito ai fatti della Mavi Marmara, a Gaza entrano beni alimentari di ogni genere.

Attualmente nei negozi di Gaza City si trova di tutto, dalla pasta Barilla, ai biscotti senza zucchero, al cioccolato fondente oltre l'85 per cento, alle barrette energetiche. Le signore che fanno la spesa al mercato di Sheikh Radwan si lamentano dell'aumento dei prezzi della carne. Il petto di pollo a 28 shekel costra troppo secondo la signora Amani Bahod, che incolpa di questa situazione i balzelli imposti da Hamas. Anche il 50enne Khaled che fa il tassista alla guida di una mercedes gialla a nove porte, dice che la benzina al di là del confine egiziano cosa la metà «perché a Gaza il ricarico finisce nelle casse di Hamas».

I tunnel che spuntano in Egitto restano aperti, ma funzionano soprattutto per il traffico di materiale edile, motocicli di fabbricazione asiatica e articoli vari tra cui mucche Angus. L'isolamento della Gaza governata da Hamas da parte della comunità internazionale è aggirato attraverso la politica del "no-contact" a livello formale con gli islamisti al potere da parte di Ong e organizzazioni internazionali.

Il blocco imposto dall'esterno ha privato l'economia di Gaza di un tessuto produttivo e imprenditoriale che tradizionalmente le apparteneva. I consumi sono oggi alimentati dal flusso di danaro che arriva da Anp, donatori internazionali (che impiegano personale internazionale e locale), Unrwa e lo stesso governo di Hamas. I gazawi vorrebbero tornare a lavorare, a esportare. Quello che davvero manca a Gaza è la prospettiva di uno sviluppo. Cosa diversa dal limitarsi a sedersi al ristorante per riempire la pancia. Khalil Shaheen, esponente di punta del Centro palestinese per la difesa dei diritti umani di Gaza (Pchr), pensa che il surplus di cibo che va sprecato nelle sere di Ramadan andrebbe spedito nel Corno d'Africa. A Gaza, come negli altri Territori palestinesi, non servono sacchi di riso. Non siamo in Africa sub-sahariana. I palestinesi aspettano soluzioni di tipo politico ed economico. E di avere in tasca un passaporto.

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