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Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2011 alle ore 14:26.

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Ribelli libici controllano il distretto di Abu Salim a TripoliRibelli libici controllano il distretto di Abu Salim a Tripoli

Sulla via del ritorno dalla radio dell'auto il rais fa risentire la sua voce: «Dobbiamo respingere questi vermi. Uscite dalle vostre case e liberate Tripoli». Il raìs si rivolge a uomini e donne: «La Libia sia dei libici, non della Francia, non dell'Italia, non dei colonialisti», tuona l'uomo che ha oppresso il Paese per 42 anni. E rincara la dose: «Correte a distruggere i ribelli. Il nemico è deludente. La Nato si sta ritirando, non resterà per sempre in aria».

La solita invettiva, sentita tante volte. A cui la gente non crede più. Perché ieri, per la prima volta da alcuni giorni, nella spettrale Tripoli, le cui vie erano deserte giorno e notte, è tornata la gente a festeggiare. Dalla auto i bambini sventolano la bandiera della Libia liberata, identica a quella risalente ai tempi di re Idris, il monarca rovesciato dal giovane Muammar nel 1969. «Abu Salim è stata liberata. Sono tornato per restare, con la mia famiglia, così come tanti altri residenti. Gheddafi finito», racconta Abdul Rahman, 54 anni, negoziante, mentre tiene in braccio il suo piccolo di due anni. Si fanno vedere anche le donne, coperte dal loro velo.

Ieri è stata compiuta una tappa importante. Ma Tripoli non è liberata, e nemmeno la Libia. Si combatte ancora, furiosamente, a Sirte, la roccaforte natale di Gheddafi (dove, secondo una tv filo-regime ci sarebbero stati anche bombardamenti della Nato) e in altre località. I ribelli hanno però espugnato la località strategica di al-Wyg, nell'estremo sud del Sahara, vicina alla frontiera con Niger e Ciad, dove si trova anche un aeroporto.

Ma non è ancora finita. Nascosti sui tetti, agli ultimi piani dei palazzi di vetro, sui minareti delle moschee, i cecchini continuano a paralizzare la città. Dappertutto. Anche nei pressi dell'Hotel Corinthia l'albergo dove ci sono ormai più di 200 giornalisti stranieri da tutto il mondo. Sono da poco passate alle due quando all'esterno dell'Hotel si odono colpi di arma da fuoco. È un cecchino, che spara in direzione dell'albergo, pallottole colpiscono il muro e sembra qualche finestra. Davanti ai nostri occhi, i ribelli accorrono numerosissimi, lo scontro a fuoco dura 35 interminabili minuti. Poi il silenzio.

Quando finirà è difficile dirlo. Ma è una guerra sporca, che rischia di provocare pesanti strascichi anche sul futuro della nuova Libia. E se non sono circa 20mila le vittime del conflitto, come ha precisato ieri Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) che amministra le zone liberate, il bilancio è comunque drammatico.

Ma bisogna guardare avanti. Mentre ancora si combatte, si cerca di ricostruire il Paese. E per farlo occorre concentrarsi sulla risorsa che ha arricchito enormemente il raìs e il suo entourage, molto di meno la popolazione; il petrolio. Arrivato a Tripoli, il ministro delle finanze Ali Tarhouni – la prima autorità del Cnt ad essere arrivata nella capitale - ha fatto un annuncio che fa ben sperare: la compagnia energetica nazionale (Noc) potrà produrre 500-600mila barili di petrolio al giorno entro due settimane. «Credo che torneremo alla normalità entro un anno (1,6 milioni di barili al giorno)», ha concluso. I libici di Tripoli sperano di ritornare alla loro vita in molto di meno. Sono ormai esausti, raccontano, di una guerra che sono stati costretti a combattere.

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