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Questo articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2011 alle ore 18:36.

«Ma l'Italia sa che noi siamo abbandonati qui da febbraio, può fare qualcosa per non lasciarci morire? Perché tutti ci hanno abbandonato? Papà ti prego fai tu qualcosa per salvarmi». A lanciare l'Sos dalla Somalia, a motori spenti da un pezzo, è il 30enne ufficiale triestino Eugenio Bon, con una telefonata al padre nelle scorse ore.
Il giovane marittimo è uno dei 22 protagonisti dell'Odissea della nave battente bandiera italiana "Savina Caylyn", assaltata dai pirati nell'oceano Indiano l'8 febbraio scorso, a 880 miglia dalle coste somale. L'equipaggio della petroliera, che trasporta 86mila tonnellate di greggio, è composto da cinque italiani e 17 indiani.
A sette mesi dal sequestro, il comandante Giuseppe Lubrano Lavadera, 47 anni, di Gaeta, il direttore di macchina Antonio Verrecchia, 62 anni, il già citato Bon, il terzo ufficiale di coperta, Crescenzo Guardascione, che ha compiuto 40 anni in mano ai rapitori, il giovane Gianmaria Cesaro, 26 anni, di Sorrento e i loro compagni di sventura asiatici, resistono in condizioni ormai disperate. Lo dimostra un altro drammatico passaggio della conversazione tra Bon e suo padre: «Sto morendo, le gambe non le sento più, non riesco a camminare, ho la pelle tutta rovinata, ormai ci torturano ogni giorno, sono sfinito».
Di fronte a parole come queste, la richiesta di silenzio sulla vicenda, rivolta alle famiglie e alla stampa dal Ministro degli Esteri italiano Frattini, è caduta nel vuoto. Nascono iniziative volte a chiedere conto alle autorità del destino dei malcapitati della "Savina Caylyn" e anche di un'altra nave italiana sequestrata in Somalia il 21 aprile, la "Rosalia D'Amato", con a bordo un equipaggio composto da 6 italiani e 16 filippini. Palazzo Chigi ha oggi diffuso una nota per chiarire che nel caso della "Savina Caylyn", non è stata percorsa la strada dell'intervento militare (altri governi, come gli Stati Uniti e la Francia, invece, l'hanno percorsa, anche a costo di rischiare le vite degli ostaggi) «su specifica richiesta delle famiglie». Il Governo italiano «non può d'altra parte sostenere alcuna azione che si traduca in favoreggiamento del fenomeno della pirateria» si legge ancora nel comunicato.
Qualcosa per salvare gli italiani dovrà però pur muoversi. In un'altra recente telefonata dalla Somalia, il Capitano Lubrano Lavadera ha descritto condizioni di detenzione da tortura. I prigionieri non possono stendersi. Hanno per questo sviluppato edemi alle gambe e infezioni della pelle, mentre i medicinali che erano a bordo sono finiti. A causa dei mancati progressi nelle trattative con i sequestratori somali, le razioni di cibo somministrate loro dai pirati sono per giunta drasticamente diminuite. Oggi ricevono un pugno di riso a testa e acqua razionata in condizioni climatiche torride. L'aria condizionata non è in funzione sulla nave e le condizioni igieniche sono intollerabili. Lubrano si è rivolto al Presidente della Repubblica, al Capo del governo e al Papa, affinché intervengano per la liberazione dell'equipaggio. Una minaccia di morte esplicita da parte dei pirati ha gettato nel panico uomini già provati da mesi di prigionia. «Abbiamo ricevuto la macabra minaccia di decapitazione di un membro dell'equipaggio se non verranno esaudite le richieste di riscatto», ha detto al telefono alla moglie il capitano della "Savina Caylyn".
I pirati somali, è noto, non hanno interesse a uccidere. Vogliono soldi. E tanti. Escluso il blitz, la sola strada percorribile per riportare a casa gli italiani è il negoziato con i rapitori. Al sicuro nella loro roccaforte, i predoni del mare che tengono in mano gli italiani considerano il riscatto offerto dalla società armatrice, Fratelli D'Amato, tramite un intermediario britannico insufficiente, rispetto alla richiesta, stimata intorno ai sedici milioni di dollari.
A differenza dei rapiti e delle loro famiglie, i pirati non hanno fretta. L'incremento del business negli ultimi anni li ha messi in una botte di ferro. Oggi sono armati meglio che in passato e agiscono anche a grande distanza dalla costa, spostandosi non più dalla terraferma, ma da altre navi. Lo dicono gli esperti della Maritime Scurity Review. Il costo totale per le assicurare le navi che transitano per le zone calde della pirateria al largo delle coste dell'Africa orientale è attualmente, secondo l'agenzia Reuters, pari a 3.2 miliardi di dollari annui. Gli introiti dei pirati sono proporzionali a tale cifra.
A margine dei lavori dell'Assemblea generale dell'Onu, la settimana prossima, Frattini incontrerà a New York il primo ministro somalo Abdiweli Mohamed Ali, con cui discuterà della "Savina Caylyn". Il governo somalo è sotto assedio in casa propria. Non controlla l'intero territorio e nemmeno la capitale Mogadiscio. Sarà difficile che possa garantire un intervento risolutivo per gli italiani.
I pirati che tengono in mano i nostri connazionali e i colleghi indiani sono assidui consumatori di foglie di qat, una sostanza stimolante tradizionalmente utilizzata per sopportare meglio l'afa, serve oggi come marcia in più nelle scorribande marittime. In altre parole agiscono sotto l'effetto di stupefacenti. E per ogni giorno che passa il prezzo per liberare gli italiani aumenta. «La richiesta di riscatto aumenta di 250mila dollari al mese», ha detto il capitano della nave chiedendo aiuto all'Italia. Pagare oggi, insomma, potrebbe costare meno che domani. In più, salvando vite umane.
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