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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2011 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 20 settembre 2011 alle ore 08:53.

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In un momento difficile e complesso come quello attuale, nel pieno della crisi dei debiti sovrani e con un'incombente stagnazione economica alle porte, la credibilità di un Governo è un fattore assolutamente strategico e la sua strategia di politica economica deve essere credibile. Il taglio a sorpresa del rating italiano da parte di Standard & Poor's conferma che il paese paga il conto di una grave crisi di credibilità.

Purtroppo, da tempo l'Italia ha perso la prima, mentre a partire dall'estate ha cominciato a ondeggiare paurosamente anche sulla seconda, fino a quel momento impostata su una buona tenuta del deficit di bilancio rispetto alle autentiche voragini prodottesi nella maggior parte dei conti degli altri Paesi. Il tremendo cambio di passo imposto dalla crisi, con il crollo delle Borse e la "fuga dal rischio", ha repentinamente spostato l'attenzione dei mercati e degli investitori dalle azioni messe in campo dai Governi semplicemente per riequilibrare i bilanci statali al ben più complesso problema dei livelli assoluti del debito, con il crescente timore che l'enorme massa dei debiti pubblici e privati, nuovi e/o in scadenza, possa rapidamente condurre il mondo avanzato a una vera e propria implosione finanziaria.

L'Italia, tenutasi fino a quel momento al coperto e lodata per il relativo rigore del suo bilancio, di colpo si è trovata al vento, un vento divenuto ben presto tempesta. Al punto che nel nuovo clima d'emergenza ci è stato richiesto dall'Europa e dalla Bce di accelerare di un anno, dal 2014 al 2013, l'azzeramento del deficit pubblico. Il gran caos attorno alla manovra finanziaria estiva, con ripetuti annunci e contrordini sui contenuti della manovra stessa, ha acuito la sensazione che il governo del Paese vacillasse, mentre il montare degli scandali e delle controversie giudiziarie riguardanti il premier ha ulteriormente minato la credibilità dell'esecutivo. Soltanto così si spiega il "sorpasso" degli spread dei titoli di Stato italiani su quelli della disastrata Spagna, ritenuti fino a quel punto più rischiosi dei nostri, rispetto al consueto parametro di riferimento dei bund tedeschi. Una deriva, quella dei nostri titoli pubblici, che avrebbe potuto essere anche maggiore senza gli acquisti di sostegno da parte della Bce.

Non è esagerato dire che in una sola estate, come una cicala, l'Italia abbia sprecato tutta la credibilità che si era costruita come formica da quando, nell'ottobre del 2008, esplose la crisi dei mutui subprime. Con ciò non soltanto complicando il collocamento dei titoli pubblici italiani sul mercato ma rendendo anche vieppiù diffidenti i nostri partner europei nei riguardi di proposte pur innovative degli Eurobond, come quella avanzata su questo giornale da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio.
Eppure il nostro Paese, all'inizio, era rimasto relativamente ai margini della tempesta, non essendovi stata in Italia una "bolla" immobiliare e finanziaria come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Spagna, Irlanda. Risultavamo meno colpiti, con le famiglie italiane che erano (e restano) tra le meno indebitate al mondo, con le nostre banche solo sfiorate dal crack finanziario dei titoli "spazzatura" e con una crisi che da noi ha pesato più sulle imprese esportatrici e sugli investimenti che non sui consumi delle famiglie.

Anche quando è divampata la crisi della Grecia, seguita poi da quelle d'Irlanda e Portogallo, l'Italia, nonostante il suo storico elevato livello del debito, è rimasta a lungo relativamente indenne da conseguenze negative. Anzi, nell'immaginario collettivo eravamo finalmente usciti dal gruppo dei Pigs. Inoltre, le nostre banche ancora una volta sembravano solide, non risultando esposte nei Pigs stessi, diversamente dalle banche tedesche, francesi, inglesi e olandesi.
Non è passato un secolo ma era soltanto l'inizio dello scorso giugno quando la Commissione europea riteneva il nostro piano di consolidamento finanziario "credibile fino al 2012" e l'Economist, in un articolo fortemente critico su Silvio Berlusconi, scriveva che «la principale ragione per cui l'Italia è rimasta estranea alla crisi dell'Eurozona è che il ministro delle finanze Giulio Tremonti ha frenato gli istinti populisti e di spesa facile del suo premier e ha imposto una rigida disciplina fiscale. Tremonti ha fatto poco per far crescere l'economia ma ha tranquillizzato gli investitori sulle capacità dell'Italia di poter finanziare il suo elevato debito pubblico».

In soli tre mesi, dopo le rocambolesche vicende della manovra finanziaria e i crescenti contrasti all'interno della maggioranza, tutto sembra radicalmente cambiato e la credibilità del Governo italiano sul piano internazionale è scesa ai minimi storici.
In realtà, non sono peggiorati i nostri fondamentali. Anzi, in alcuni casi sono migliorati. Il nostro Pil cresce poco per la persistente debolezza della domanda interna ma l'export italiano nei primi sei mesi del 2011 è cresciuto più di quello tedesco. La ricchezza finanziaria e immobiliare delle famiglie italiane resta fra le più alte al mondo. Inoltre, l'Italia continua ad avere uno dei migliori bilanci primari. Le statistiche dell'Eurostat ci dicono che il nostro Paese è già tornato in avanzo primario nel primo trimestre del 2011, mentre gli altri tre maggiori Paesi dell'Unione europea e i 4 Pigs erano ancora in rosso (come appare dai grafici). Con la nuova manovra finanziaria, ancorché squilibrata fra troppe tasse e pochi tagli di spesa, il nostro avanzo primario crescerà ulteriormente e rapidamente. Nessun altro Paese in Europa riuscirà a fare altrettanto. Continuerà quindi la prodigiosa capacità dell'Italia di generare avanzi primari consistenti, grazie soprattutto, però, ai continui sacrifici di famiglie e imprese tramite nuove tasse e aumento dei costi o soppressione di servizi pubblici piuttosto che mediante tagli della spesa statale improduttiva e dei costi della politica.

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