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Questo articolo è stato pubblicato il 12 ottobre 2011 alle ore 06:36.

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ROMA
Il volto terreo di Silvio Berlusconi che, con una smorfia di fastidio rivolta a Giulio Tremonti, guadagna rapidamente l'uscita dell'aula in cui era arrivato pochi minuti prima per votare: è il fermo-immagine che racconta quanto quello di ieri non sia stato un mero «incidente di percorso». Il premier, colto in contropiede, ha dato mandato ai suoi di minimizzare. Ma è una "mission impossible". L'eco delle parole con cui Gianfranco Fini accoglie la richiesta della maggioranza di sospendere la seduta per «le evidenti implicazioni di carattere politico dell'accaduto», rimbomba in Transatlantico e nella sala del governo, al di là della vetrata, dove il Cavaliere cerca di capire come «è potuto accadere» ma soprattutto «cosa fare adesso» per riparare.
Due interrogativi che restano appesi per tutto il resto della serata, fino a Palazzo Grazioli dove Berlusconi si riunisce fino a notte con lo stato maggiore di Pdl e Lega per trovare un'«exit strategy» non a portata di mano. Alla fine si opta per una misura tampone: Berlusconi oggi interverrà alla Camera per alcune «dichiarazioni programmatiche» sulle quali domani si voterà la fiducia. È il modo in cui il Cavaliere conta di rattoppare la falla apertasi ieri. L'ipotesi di un semplice emendamento al ddl di cui ieri è stato bocciato l'articolo 1 resta in piedi, ma non è più – come si pensava inizialmente – la soluzione su cui puntare. Anche perché la decisione spetta alla Giunta per il regolamento in cui la maggioranza ce l'ha l'opposizione. Inoltre non va dimenticato che il rendiconto del bilancio è un provvedimento espressamente richiamato dalla Costituzione (articolo 81) sul quale c'è una particolare attenzione del Quirinale. Ce ne è abbastanza per consigliare di aggirare l'ostacolo, con la fiducia sull'intervento del premier e ripartendo con un nuovo ddl.
Certo, l'elenco degli assenti fa venire più di un dubbio non solo per il numero (una trentina) ma per i nomi eccellenti che spiccano: Tremonti, Scajola, Bossi. Tre voti sufficienti, se fossero arrivati, a evitare la débacle. Tre voti che sono anche tre indizi e forse una prova di una maggioranza in disfacimento. «È stato un incidente», giura Bossi, che al momento del voto sorseggiava un bicchiere di Coca-cola nel cortile di Montecitorio assieme a due deputate del Carroccio (non c'era neppure Maroni che ha preferito andare a Varese dai suoi). Lo stesso dicasi per il ministro dell'Economia, sedutosi tra i banchi del governo quando ormai era troppo tardi. E proprio su Tremonti si sono concentrati gli strali più pesanti dei colleghi di partito con richieste pubbliche di «dimissioni». In realtà neppure Berlusconi crede che «Giulio l'abbia fatto apposta». Ma, come spiega Osvaldo Napoli, fedelissimo del premier, la sua assenza pur non essendo «dolosa» esprime «mancanza di rispetto» verso gli altri deputati che erano lì a votare «un suo provvedimento». L'unico a giustificarlo è il Senatur. «Stava lavorando alla manovra», assicura Bossi che, dopo aver derubricato anche lui la bocciatura di ieri a «incidente», torna però a mettere in discussione la durata del governo con un «vedremo». C'è poi Scajola, che proprio ieri aveva pranzato a Palazzo Grazioli con il Cavaliere. Anche lui assieme ad altri quattro frondisti non ha partecipato al voto. Così come i sette Responsabili, con in testa Pionati che da tempo borbotta per la mancata promozione a sottosegretario. «Ma non c'è niente di serio», continuano a ripetere i pasdaran del premier da Denis Verdini a Daniela Santanchè.

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