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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2011 alle ore 09:07.

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SHANGHAI - «Non mi attendo alcun risultato immediato dai nostri colloqui con le autorità cinesi». Il direttore del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (Efsf), Klaus Regling, raffredda gli entusiasmi di chi contava su un pronto intervento del Dragone per aiutare l'Eurozona a uscire dalla crisi del debito.

«È noto che la Cina ha bisogno di trovare investimenti per allocare il suo trade surplus e che è già una buona acquirente dei titoli emessi dal Efsf» ha detto laconicamente Regling, oggi a Pechino nel corso di una conferenza stampa. «Sono qui solo per effettuare un giro di consultazioni» ha aggiunto il numero uno del fondo salva Stati europeo, sbarcato stamane nella capitale cinese dove nelle prossime ore incontrerà i vertici del ministero delle Finanze e della People's Bank of China.

Niente di strano. Il cavaliere bianco cinese, prima di mettere mano al portafoglio, intende vederci chiaro nell'operazione di salvataggio del Vecchio Continente. Il che significa sostanzialmente due cose.

Uno. Pechino vuole capire come funzionerà tecnicamente e praticamente lo Special Purpose Vehicle che Bruxelles sta pensando di creare per raccogliere capitali dai fondi sovrani, dagli investitori privati, ed eventualmente dal Fondo Monetario Internazionale, da destinare all'acquisto di titoli del Tesoro dei paesi dell'Eurozona.

Inoltre, la Cina vuole sapere come il nuovo (o i nuovi, perché potrebbero essere più di uno) "veicolo speciale" s'integrerà con il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria che, sulla base degli accordi raggiunti mercoledì a Bruxelles, dovrà essere potenziato passando dagli attuali 440 a mille miliardi di euro. La trasferta di Regling oltre la Grande Muraglia dovrebbe servire proprio a questo scopo.

Due. Pechino, non avendo alcuna intenzione di gettare i propri quattrini dalla finestra, vuole delle solide garanzie dall'Unione Europea. In particolare, chiede a Bruxelles di vigilare affinché i paesi più indebitati e a rischio insolvenza mettano subito in atto delle severe e vincolanti politiche di austerità fiscale per riportare in equilibrio i propri conti pubblici. Su questo tema, invece, il direttore del Efsf avrà presumibilmente poco da dire perché la questione degli impegni dei singoli Stati a rimettere ordine nelle loro finanze è squisitamente politica. Ed è una patata bollente che devono pelare direttamente i leader più autorevoli dell'Unione Europea: così si spiega il colloquio telefonico della notte scorsa tra Nicolas Sarkozy e il presidente cinese, Hu Jintao.

Insomma, la situazione appare ancora molto fluida. L'unica cosa certa, per ora, è che la Cina è pronta a lanciare un salvagente all'Europa. L'unica incognita sarebbe legata alle modalità, alle dimensioni e alle tempistiche dell'intervento.

Secondo alcune indiscrezioni del "Financial Times", che cita anonime fonti governative cinesi, Pechino vincolerebbe l'entità del proprio contributo, oltre ovviamente alle garanzie offerte dalla Ue, anche alla presenza di altri paesi emergenti nell'operazione. Secondo le stesse fonti, il Governo cinese starebbe valutando di investire una cifra compresa tra 50 e 100 miliardi di dollari per rafforzare il meccanismo di salvaguardia dei debiti sovrani europei in allestimento in queste ore a Bruxelles.

Sebbene oggi il Dragone stia comodamente seduto su 3.200 miliardi di dollari di riserve valutarie, non è una cifra da poco. Il tesoretto di moneta pregiata accumulata negli ultimi dieci anni da Pechino, infatti, rappresenta il fulcro dell'equilibrio finanziario della superpotenza asiatica. Ecco perché la nomenklatura, che su un tema di così larga portata deve tenere in conto gli umori dell'opinione pubblica domestica, non può permettersi di sprecare preziose risorse pubbliche.

Ciò detto, oggi la Cina ha tutto l'interesse a non lasciare scivolare l'Europa nel baratro del debito. Per diverse ragioni.

La prima. La Ue è il primo partner commerciale del Dragone e, quindi, un'eventuale implosione dell'Eurozona sarebbe una sciagura per le esportazioni del made in China, da cui dipendono i destini di un sistema di piccole e medie imprese già messo alle corde da due anni di politica monetaria restrittiva.

La seconda. Sebbene la Cina abbia investito suppergiù due terzi delle proprie riserve valutarie (3.200 miliardi di dollari al 30 settembre scorso) nell'area dollaro, Pechino ha pur sempre un gettone da oltre 600 miliardi di euro puntato sul debito di diversi paesi europei che non vorrebbe mai vedere andare in fumo.

La terza. Aiutando Bruxelles a uscire dalle sabbie mobili dei debiti sovrani, la Cina staccherebbe una cambiale in bianco da portare all'incasso appena possibile, chiedendo all'Unione Europea due cose: il riconoscimento immediato dello status di economia di mercato, con quattro anni di anticipo secondo quanto previsto dagli accordi Wto; e l'abolizione dell'embargo alla vendita di armi a Pechino, imposto nel 1989 dopo il massacro studentesco di Piazza Tiananmen.

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