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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2011 alle ore 07:54.

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Per gli atenei riforma a metà stradaPer gli atenei riforma a metà strada

I ricercatori, soprattutto quelli a inizio carriera, aspettano con ansia il decreto sugli scatti premiali per alleviare il congelamento degli stipendi deciso nel 2010, che in termini di mancati aumenti a loro costa fino al 33% della retribuzione, contro il 7% scarso pagato da chi ha più di 15 anni di anzianità. Gli ordinari, invece, sono sulle barricate per rivedere i criteri di valutazione dell'abilitazione nazionale, ed evitare il rischio di vedersi negato il posto nelle commissioni giudicatrici se non si vanta una produzione scientifica continuativa.

Nel cantiere dell'attuazione della riforma universitaria, insomma, a 10 mesi esatti dall'approvazione della legge Gelmini i lavori sono ancora in fermento. Nel menu degli impegni scritto dal Governo mercoledì scorso nella lettera alle autorità Ue si promette l'attuazione completa entro fine anno, e per centrare l'obiettivo serve un colpo di reni drastico: su 47 provvedimenti necessari a dare piena applicazione alla riforma, la «Gazzetta Ufficiale» ne ospita per il momento 13, cioè poco più di un quarto. «È assurdo aggiunge Giuseppe Losco, neo prorettore all'università di Camerino e autore della ricognizione dei provvedimenti - che il governo non abbia neppure istituito un sito che dia conto in modo trasparente dello stato di avanzamento della riforma, con il risultato che le stesse università e i docenti brancolano nel buio».

La complessità dell'operazione era chiara fin dall'inizio, e aveva moltiplicato i dubbi sull'effettiva possibilità di centrare il primo calendario annunciato in Parlamento dal ministro dell'Università Mariastella Gelmini, che aveva previsto la chiusura dei lavori entro giugno. Il ministero, in realtà, ha praticamente svolto tutti i propri compiti, ma i tempi dipendono dal mosaico degli attori coinvolti nei vari provvedimenti, dall'Economia a Consiglio di Stato, Corte dei conti, Crui, consiglio universitario nazionale e via elencando.

La difficoltà nel trasformare questa folla in coro sono evidenti se si guarda ai pilastri dell'impalcatura della riforma, come per esempio l'abilitazione nazionale chiamata a sostituire i vecchi concorsi locali. È uno degli aspetti cruciali e più caratterizzanti dell'intero progetto, ed è finora riuscito a portare al traguardo due decreti attuativi dei tre necessari. I primi problemi sono stati incontrati dal provvedimento con l'inquadramento generale dell'abilitazione, che ha subito un rimpallo tra ministero e Consiglio di Stato prima di ottenere il via libera definitivo, e ora il braccio di ferro, questa volta con i professori, si è spostato sul provvedimento che fissa i criteri di valutazione. A far storcere il naso al Consiglio universitario nazionale, nella previsione di un utilizzo diffuso di indicatori bibliometrici oggettivi per la valutazione delle pubblicazioni dei candidati, è l'incarico assegnato all'agenzia nazionale di Valutazione di trovare parametri utili nelle discipline (umanistiche in primis) dove i criteri internazionali non sono diffusi; le preoccupazioni vere, però, sono nei parametri per ammettere gli ordinari nelle commissioni giudicatrici, che vogliono chiudere la porta in faccia ai docenti che non hanno una qualificazione scientifica solida e un'attività pubblicistica non abbastanza brillante. Tutti nodi da sciogliere in fretta se si vuol far ripartire il reclutamento, bloccato ormai da tre anni, mentre gli incentivi per il piano straordinario per l'assunzione di associati, che avrebbero dovuto favorire i primi "abilitati" con le nuove regole, vengono inesorabilmente dirottati verso gli idonei dei vecchi concorsi locali.

Sono soprattutto le ristrettezze del bilancio pubblico, invece, a frenare le novità sul fronte finanziario. L'incremento della dote del finanziamento «meritocratico», parametrato alle performance di ogni ateneo nella didattica e della ricerca, deve fare i conti con i compromessi del decreto sul fondo ordinario 2011, che non è ancora stato distribuito; intanto nella lettera alla Ue il governo torna a spingere sulla maggiore autonomia per le università nella fissazione dei contributi studenteschi, oggi sottoposti a un vincolo (non possono superare il 20% dell'assegno statale) ignorato da più di metà degli atenei statali.

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