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Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2012 alle ore 17:47.

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Amina sventola con forza la grande bandiera dell'Egitto. E' più grande di lei, l'ha portata con sé dalla città di Suez. Un lungo viaggio per venire qui, in piazza Tahrir, e unirsi ai festeggiamenti. Ma il volto della giovane studentessa, sulle cui guance sono dipinte due altre piccole bandiere, alterna espressioni di gioia ad altre di vibrante protesta. «Sorrido - racconta - perché la rivoluzione oggi compie un anno. Ma sono furiosa perché i militari ci hanno tradito. Questa è la seconda parte della rivoluzione. Non si illudano: non ce ne andremo fino a che il Consiglio militare non cederà il potere al popolo».

Sono centinaia di migliaia gli egiziani accorsi nella grande piazza del Cairo, il simbolo della rivoluzione dei tulipani. Con slogan , canti e danze ricordano quel 25 gennaio che cambiò la vita del più popoloso paese del mondo arabo. Era il giorno di festa della polizia, quel 25 gennaio. Indignati per i continui crimini commessi dalla forza più fedele al presidente Hosni Mubarak, e incoraggiati dall'esito della rivolta tunisina, centinaia di giovani scesero in piazza per protresare e chiedere la fine del regime che da 32 anni governava l'Egitto con il pugno di ferro.

La repressione che seguì fu spietata. Ma dopo 17 giorni di oceaniche manifestazioni , Mubarak, l'ultimo faraone, rassegnò le dimissioni e passò il potere al Consiglio dei militari. L'esercito che era intervenuto, impedendo alla polizia di affogare nel sangue Piazza Tahrir, aveva comunque mantenuto un ruolo neutrale. La sera dell'11 febbraio, nella grande piazza, un milione di egiziana cantavano: il popolo e l'esercito sono la stessa mano. Un anno dopo. Tahrir torna a tuonare. Ma questa volta i canti sono diversi. Lo slogan più ripetuto è «l'esercito e la polizia sono la stessa mano». Nessuno perdona le forze armate della brutale repressione commessa a fine novembre. Ora Tahrir vuole la sua seconda rivoluzione.

Prima di accedere alla grande piazza occorre passare un cordone di sicurezza e sottoporsi a una perquisizione. «I militari non aspettano altro che qualche disordine per dire che senza di loro la sicurezza non è garantita. Ma noi staremo in guardia contro i sabotatori», spiega Khaled, 66 anni, volontario dei fratelli musulmani, i grandi trionfatori delle ultime storiche elezioni parlamentari di novembre-dicembre. Le prime democratiche negli ultimi 60 anni. Si sapeva che il movimento islamico messo fuorilegge da mezzo secolo avrebbe vinto, non si immaginava che trionfasse in questo modo: il 47% dei voti. E ancora meno, si pensava che gli islamisti salafiti, guidati dal partito estremista al Nour (la Luce in arabo), potessero raccogliere il 25% dei voti. I partiti islamici, dunque, tra moderati e meno - rappresentano ora il 70% del nuovo Parlamento.

Che siano giovani manager, operai, donne vestito di nero, o mogli abbigliate alla modo con in capelli ossigenati, tutti chiedono la stessa cosa: i militari devono cedere il potere. Eppure la rivoluzione non è unita come vuole far apparire. Dai laici, ai comunisti, dai giovani blogger ai nasseriani, passando per gli islamici, le divisioni sulla strada che dovrà imboccare il nuovo Egitto sono ampie, e profonde. Ecco perché nella grande piazza i palchi sono tanti. Ognuno per ogni gruppo. Ecco perché , quando iniziano a parlare attraverso i megafoni, i discorsi dei vari leader sono diversi. Perché diversi sono i capellini, i simboli, e quando si entra nel dettaglio anche le rivendicazioni.

I giovani del movimento sei febbraio. Tra i protagonisti nella rivolta del gennaio-febbraio 2011 – sono ormai un'esigua minoranza, messa in ombra dai sostenitori dei fratelli musulmani e dei salafiti, anch'essi in piazza. Mohamed Khaled, 28 anni a prima vista potrebbe essere identificato in uno dei giovani membri dei partiti secolaristi. Indossa un paio di jeans e una maglietta scura di foggia occidentale e ben stirata. Lavora – racconta - presso una sede della Vodafone al Cairo. Si esprime in un inglese fluente. Eppure anche lui ha votato per i partiti islamici, per quelli del gruppo di al Nour, i salafiti. «La maggior parte degli egiziani è gente islamica. Ho votato i salafiti perché hanno un piattaforma elettorale chiara, basata sulla religione, la sola cosa importante della nostra vita». Mohammed non è sorpreso dalle divisioni tra i diversi gruppi: «Con Mubarak il dissenso era impensabile. Ora le differenze significano che siamo in una democrazia: più gruppi, più voci, più punti di vista. Ma non è finita. Vogliano i nostri diritti, vogliano i nostri soldi, la gente è ancora arrabbiata per questo».

Piazza Tahrir è come un grande essere vivente, che brulica, si muove, si accuccia – quando centinaia di migliaia di persone pregano insieme – e poi torna a vibrare. In mezzo alla folla spicca il niqab (la veste islamica nera che copre dal capo ai piedi) di Muna. Sul braccio un grande adesivo che recita «pane libertà e giustizia». Con le mani sorregge un grande cartellone su cui è scritto «Scendiamo oggi a Tahrir. O mandiamo via i militari, oppure moriamo». Il Niqab lascia trasparire dalla sua fessura solo gli occhi. Ci si aspetterebbe un'estremista convinta. Eppure Muna precisa di essere più favorevole a una coalizione che comprenda anche i partiti laici. «Il consiglio militare deve cedere il potere al popolo. Tutti vogliono un Egitto nuovo», ci spiega. Muna è un fiume in piena. È furiosa contro l'ultima mossa - una trovata per ingannarci, si lamenta - del generale Mohamed Hussein Tantawi, il capo del Consiglio supremo. Per placare lo scontento popolare il generale ha annunciato la fine dello stato d'emergenza in vigore dal 1967. Ma con un dettaglio che non è affatto trascurabile: non saranno esclusi le ipotesi di «atti di criminalità». «Una beffa – protesta Muna - perché vuol dire tutto e niente».

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