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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2012 alle ore 16:54.

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Qual è il giudizio delle truppe straniere agli occhi degli afghani? L'Ong Intersos e il giornalista Giuliano Battiston hanno condotto una ricerca parziale (su oltre una settantina di soggetti) ma significativa sulla presenza del contingente nelle provincie di Herat, Farah e Baghdis, dove i 4mila militari italiani sono protagonisti da diversi anni sia delle operazioni di sicurezza e combattimento che della ricostruzione.

È anche un bilancio, visto dalla parte afghana, di una missione che è costata 44 caduti e ogni giorno affronta pericoli e insidie sanguinose: oltre 4 miliardi di euro investiti, di cui l'87% in spese militari e il 13 % nella cooperazione economica.

Il risultato, che non sorprende perché di questa fase storica dell'Afghanistan ce ne occupiamo da un decennio e oltre, non è confortante ma neppure così negativo come può sembrare. Nessuno ha mai davvero vinto una guerra da queste parti, nessuna presenza straniera, non solo militare, è stata mai apprezzata: conquistare i cuori e le menti degli afghani, come di molte popolazioni che si ritengono "occupate" è un'impresa difficile se non impossibile.

Veniamo al nocciolo. Il dato più evidente che emerge è uno scollamento tra le opinioni ufficiali delle cancellerie occidentali e quelle degli afghani. Gli occidentali sostengono che a dieci anni dall'intervento militare le forze Nato-Isaf sono riuscite a stabilizzare il Paese, al contrario gli afghani dichiarano in queste interviste che la comunità internazionale ha fallito nel garantire la sicurezza della popolazione.

I risultati positivi, dove ci sono stati, sono troppo fragili e volatili e la maggior parte lamenta l'incapacità di arginare l'espansione territoriale dei Talebani. Un esempio è proprio Herat dove 10 anni fa erano quasi scomparsi e ora minacciano molte località della provincia. Ma potremmo aggiungere che questo vale anche in altre regioni, come la regione di Kapisa dove americani e francesi combattono da anni senza risultati: l'attacco recente ai militari francesi e la decisione di Parigi di anticipare il ritiro appare emblematica.

Più in generale alle forze straniere, pur con accenti diversi, viene imputata una scarsa considerazione dell'impatto delle loro operazioni sulla popolazione, la difficoltà a distinguere tra civili e "ribelli", l'uso indiscrimato di bombardamenti e raid notturni, la violazione degli spazi privati.

Ma quello che più colpisce è la diffusa e solida convinzione che i contingenti hanno orientamenti diversi e tattiche differenti: insomma obiettivi e agende che sembrano quasi inconciliabili. E qui si viene al punto. Tutti sono convinti che l'Iran e gli Stati Uniti stiano combattendo da queste parti una guerra per procura, con Teheran che rifornisce la guerriglia non potendo affrontare direttamente gli americani.

Quanto agli atteggiamenti militari, secondo Ahmad Qureishi, corrispondente da Herat dell'agenzia nazionale Pajhwok, gli americani attaccano, adottando una strategia aggressiva, gli italiani invece si difendono: la differenza è evidente, bisogna vedere quanto sia voluta.

Ancora più esplicito il capitolo sul Pakistan: coraggiose testimonianze, con nome e cognome, affermano che Islamabad in Waziristan accetta la presenza di campi di addestramento della guerriglia e del terrorismo, come sostiene un medico che ha lavorato per un anno da quelle parti.

In questa ricerca la critica ai militari stranieri è evidente ma gli afghani hanno ben presente chi sono i loro peggiori nemici e quelli che fanno sabotare la stabilizzazione. Ma sanno pure che l'apertura diplomatica degli americani ai Talebani può preludere a un loro ritorno al potere, un timore manifestato con grande preoccupazione dalle donne afghane intervistate. Per questo chiedono alle truppe straniere di restare o valutare meglio come attuare la transizione alle forze di sicurezza afghane.

E veniamo al capitolo ricostruzione. Dei 290 miliardi di dollari investiti in Afghanistan dal 2001 al 2009 l'85% è stato destinato alle operazioni militari, poco più del 10% all'economia e allo sviluppo. Più o meno è in questa media anche l'Italia, che pure sta aumentando la sua percentuale dopo l'ultimo accordo raggiunto con Karzai a Roma.

Un dato positivo: l'Italia, decimo donatore, tende a mentenere le promesse, cioè a erogare effettivamente i fondi stanziati.
Meno positiva è invece la percezione della ricostruzione operata dai militari con i Prt, Provincial Reconstruction Team. Le aspettative degli afghani era molto alte, i progetti realizzati pochi e insufficienti, la popolazione preferisce lavorare con i civili per non mettere a rischio l'incolumità nella collaborazione con le truppe straniere. La gente chiede, per esempio, il trasferimento del Prt italiano dal centro di Herat perché rappresenta un pericolo. Insomma lamentele largamente scontate, che hanno più di un concreto fondamento ma appaiono esasperate da una situazione economica pessima.

La ricerca conclude che ogni ipotesi futura sull'Afghanistan sia destinata a rimanere provvisoria se non si tiene conto dei giudizi e delle percezioni degli afghani sempre più preoccupati che con il ritiro dei contingenti stranieri il Paese precipiti nel disinteresse e nell'abbandono, come puntualmente e tragicamente si è verificato in passato.

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