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Questo articolo è stato pubblicato il 28 febbraio 2012 alle ore 08:14.

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Le semplificazioni possono auspicabilmente migliorare il «clima fiscale», rendendo meno oneroso e conflittuale il rapporto con il fisco. Di un inizio di inversione di tendenza, per quel che riguarda l'ingombrante peso del fisco (su chi paga regolarmente le imposte) si potrà parlare solo quando vi saranno le risorse per intervenire su detrazioni e deduzioni, e successivamente sulle aliquote.

E la via maestra per ridurre stabilmente le tasse è di intervenire sul fronte della spesa. Al momento, e in attesa di prendere visione del testo definitivo approvato venerdì sera dal Consiglio dei ministri, si paventa il rischio che nel combinato delle misure inserite nel decreto con le novità in arrivo dagli emendamenti al provvedimento sulle liberalizzazioni, si vada verso un nuovo aumento della pressione fiscale.

Già con le due sole manovre estive il peso complessivo di tasse e contributi sul Pil era indicato in netto aumento al 43,8% nel 2012, per raggiungere nel 2014 il record assoluto del 44,8% in applicazione della «clausola di salvaguardia». Se si esamina l'effetto combinato delle manovre del 2011, si sale al 45% del Pil. Conseguenza inevitabile se si guarda alla ripartizione delle tre manovre del 2011: misure concentrate per due terzi sul fronte delle entrate, che incorporano il prospettato nuovo aumento dell'Iva, in programma dal prossimo 1° ottobre, anche se il governo sta studiando strade alternative. Livello di tassazione ai limiti della sostenibilità per quanti assolvono regolarmente ai loro obblighi nei confronti dell'erario.

Ora si tratta di valutare l'ulteriore peso, in termini di aggravio reale della tassazione, di alcune misure in arrivo: è il caso dell'Imu sui beni commerciali della Chiesa che dovrebbe produrre un gettito aggiuntivo di circa 700 milioni. Ma è anche il caso del giro di vite sull'imposta di bollo dell'1 per mille per le comunicazioni sul dossier titoli. Anche la lotta all'evasione produce evidentemente un aumento della pressione fiscale, per effetto delle maggiori entrate incassate, così come l'ulteriore contrazione del Pil: trattandosi del rapporto tra due aggregati, la relazione è evidentemente strettissima.

La conclusione è che si potrebbe anche superare il livello record del 45% del Pil, stimato in dicembre dalla Banca d'Italia. È del tutto evidente che con un debito al 120% del Pil i margini di manovra sono esigui. Nell'escludere il ricorso a una nuova correzione dei conti pubblici, per effetto del peggioramento del ciclo economico, il presidente del Consiglio, Mario Monti ha ricordato che le stime di dicembre, per quanto concerne la spesa per interessi, potrebbero essere riviste in meglio grazie alla discesa dello spread. E l'aspettativa è sull'effettivo conseguimento di un avanzo primario (al netto degli interessi) nei dintorni del 5% del Pil, vera garanzia della sostenibilità della finanza pubblica nel medio periodo.

La prossima e insidiosa scommessa del governo Monti sarà il taglio della spesa corrente. Spending review, certamente, per avviare una razionalizzazione strutturale di quella consistente fetta delle uscite pubbliche da comprimere. Ma anche, e forse soprattutto, lotta senza quartiere all'evasione e alla corruzione, se è vero, come ha sostenuto il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino che la corruzione in Italia vale circa 60 miliardi di euro l'anno. L'evasione ha raggiunto la cifra record di 130 miliardi, e - parole ancora di Giampaolino - analisi accurate «condotte per la sola imposta sul valore aggiunto evidenziano per l'Italia un tax gap superiore al 36%, che risulta di gran lunga il più elevato tra i grandi paesi europei, con l'eccezione della Spagna, per la quale lo stesso rapporto supera il 39 per cento».

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