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Questo articolo è stato pubblicato il 28 febbraio 2012 alle ore 11:36.

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TOKYO - Una nuova Fukushima potrà accadere in futuro, da qualche parte nel mondo. È piuttosto deprimente la conclusione del rapporto che Greenpeace ha rilasciato oggi, a quasi un anno dal terribile 11 marzo 2011, quando il mondo intero fu costretto a essere spettatore passivo e sconvolto di un terremoto e uno tsunami che innescarono la peggiore catastrofe nucleare del XXI secolo. "Lezioni da Fukushima", si intitola il dossier stilato da tre esperti per conto dell'organizzazione ambientalista (David Boilley, fisico nucleare del laboratorio francese indipendente Acro; David McNeill, corrispondente in Giappone di vari pubblicazioni mediche ed educative; Arnie Gundersen, ingegnere nucleare). Il rapporto è stato illustrato al Foreign Correspondents' Club di Tokyo, nel giorno in cui 11 attivisti di vari Paesi (tra cui l'italiano Alessio Ponza) hanno scalato il Monte Fuji per lanciare un messaggio contro il nucleare.

Greenpeace sarà pure "di parte", ma certo è difficile sottrarsi all'impressione che la Tepco – l'utility che gestisce la centrale di Fukushima Daichi – si sia comportata come un qualsiasi comandante Schettino, con forti tratti di irresponsabilità prima, durante e dopo la tragedia, e che l' "armatore" – ossia il Governo e le autorità di regolamentazione - abbiano reagito a volte ponendo in primo piano considerazioni di diverso tipo (ad esempio il contenimento della diffusione del panico e del danno emergente per l'industria del settore) rispetto alla priorità assoluta da dare alla tutela dei cittadini. La conclusione di Greenpeace è che non è stato un disastro naturale a generare il disastro nucleare: si è trattato piuttosto di un disastro provocato dall'uomo a causa dei fallimenti di Governo, autorità di regolamentazione e industria nucleare. «Le cause fondamentali dell'incidente nucleare stanno nei fallimenti istituzionali dell'influenza politica e di una regolamentazione guidata dall'industria: fallimento delle istituzioni umane nel riconoscimento dei rischi reali, fallimento nello stabilire e nel far rispettare appropriati standard di sicurezza e fallimento, in ultima analisi, nella protezione del pubblico e dell'ambiente».

Rischi sottostimati, piani di emergenza e di evacuazione inadeguati, schemi di compensazione e di supporto alle persone la cui vita è stata sconvolta del tutto insufficienti: eppure alla fine saranno i contribuenti giapponesi a pagare un conto enorme per il disastro. «Le persone non dovrebbero essere costrette a vivere sotto il mito della sicurezza nucleare e all'ombra di un disastro nucleare possibile», ha affermato Jan Vande Putte, advisor sulla sicurezza radioattiva di Greenpeace International.

Il linguaggio radicale che è moneta corrente nell'organizzazione - impegnata in una guerra senza quartiere all'energia nucleare - può probabilmente abbassarne la credibilità presso una parte dell'opinione pubblica. Tuttavia nessuno può negare che Greenpeace abbia investito molte risorse nell'accurato monitoraggio delle conseguenze della tragedia e che spesso quanto da essa rilevato o invocato (ad esempio l'innalzamento del livello di gravità dell'incidente o l'espansione anche non a raggiera dell'area di evacuazione) sia stato prima respinto e poi accettato, con ritardo, dalle autorità. «Non abbiamo mai cercato esagerazioni - dice Vande Putte – Per esempio, mai abbiamo invocato l'estensione dell'area di pericolo immediato fino a 80 o 100 km, proprio mentre il governo degli Stati Uniti lo aveva fatto. Quando però abbiamo verificato, ad esempio, che i citadini di Iitate, a circa 30-40 km dalla centrale, erano i più esposti di tutti a un alto livello di radiazioni, non ci siamo stancati di invocare provvedimenti che alla fine sono stati presi. In un quartiere della città di Fukushima, inoltre, la radioattività è ancora oggi troppo alta: non chiediamo che l'intera città o l'intero quartiere sia evacuato, ma che sia preso in considerazione un livello di sicurezza non "mediano" ma calibrato sui i soggetti più a rischio come i bambini o le donne in gravidanza».

Numerose le circostanze piuttosto impressionanti segnalate da Greenpeace. Ad esempio, poiché non erano state prese in considerazione le previsioni del tempo e della direzione dei venti, parte dei cittadini di Namie, paese vicino alla centrale, furono evacuati a Tsushima, posta a maggiore distanza ma a rischio radioattivo molto più alto. Varie iniziative del movimento, inoltre, hanno portato a una più capillare diffusione dei controlli sulla radioattività nei cibi, stimolando test più accurati da parte di operatori come le catene di supermercati o gli stessi pescatori.

La battaglia per la tutela della salute e per le compensazioni ai danneggiati, insomma, continua al pari delle schermaglie politiche sul salvataggio-nazionalizzazione della Tepco. Intanto proprio oggi è emerso che, otto giorni prima dell'11 marzo 2011, una commissione governativa di ricerca sui terremoti avrebbe voluto emettere un "warning" sulla possibilità di un grande tsunami sulle coste del Giappone settentrionale «in ogni momento». Alla riunione non ufficiale in cui fu presentato il rapporto, però, fu deciso di soprassedere: i rappresentanti della Tepco e di altre due utilities fecero pressioni per annacquare il linguaggio, con il supporto di altri membri secondo i quali sarebbe stato meglio non utilizzare espressioni simili a quelle già diffuse per l'area del Tokai, a sud di Tokyo, dove la possibilità di uno tsunami era considerata più probabile.

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