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Questo articolo è stato pubblicato il 16 marzo 2012 alle ore 17:25.

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I due marò italiani restano in carcere, in India. Alla Enrica Lexie ieri è stata negata l'autorizzazione a lasciare il porto di Kochi per fare ritorno in Italia. Le indagini sulle responsabilità di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono in corso, dicono le autorità indiane. Si attende il 19 marzo per la decisione della corte in merito alla giurisdizione.

La rivendicano sia l'Italia che l'India, l'esito è scontato. Come se non bastasse, le sorelle dei due pescatori uccisi hanno presentato una petizione chiedendo l'arresto dell'armatore della Lexie, che, in base ad una legge indiana del 1849, potrebbe essere ritenuto corresponsabile.
A poco sono valse le visite in India dei rappresentanti del Governo italiano, anche se le autorità del Kerala hanno promesso: «Considerato che i due sono prigionieri stranieri, ogni decisione verrà presa tenendo in considerazione le leggi internazionali e la Convenzione di Ginevra». La giurisdizione in casi, come questo, che avvengono in alto mare, spetta alla nazione cui appartiene la nave. All'Italia dunque. Peccato che l'India non abbia mai messo in dubbio la propria competenza. Al contrario, finora, ha tenuto la linea dura, negando anche il trasferimento dei due marò in una guest house.

Il ministro della difesa Di Paola ha dichiarato che la petroliera, al momento del fatto, si trovava in acque internazionali e il comandante è stato attirato verso il porto «con un inganno». Dall'informativa presentata da Giulio Terzi martedì a Camera e Senato, sembra che si sia trattato a tutti gli effetti di un sequestro. Stando alla ricostruzione di alcune fonti diplomatiche, le autorità indiane hanno posto in essere una vera e propria azione coercitiva; avrebbero scortato la nave italiana fino al porto di Kochi e costretto i militari a scendere. Non sembra rilevare che i due fucilieri, insieme ad altri a bordo della Lexie, fossero impegnati in una missione antipirateria, riconosciuta dall'Onu, e che i due pescatori siano stati uccisi per un tragico errore. Se quanto rappresentato dal Governo italiano corrisponde alla realtà, "l'inganno" non può passare in secondo piano: si tratta, infatti, del fulcro della questione. Ci si chiede che importanza rivesta l'Italia nel panorama internazionale, se davvero è vittima impotente della prepotenza di un Paese amico.

Nasce quasi spontaneo il parallelo con il caso del militare americano, di cui non è stata resa nota l'identità, autore della strage di Kandahar che è costata la vita donne e bambini, sorpresi nel sonno. Sono stati uccisi da militari che li avrebbero dovuti difendere dai talebani. Il Pentagono tranquillizza che verrà condotta un'indagine capillare «per assicurare i responsabili alla giustizia». Il segretario alla difesa, Leon Panetta, precipitatosi in Afghanistan, ha sottolineato che il responsabile «rischia la pena di morte». Obama imbarazzato si scusa. Magra consolazione? Non esattamente. L'America, forte degli accordi bilaterali e dell'appoggio della Nato, va avanti per la sua strada. Le proteste afgane imbarazzano la superpotenza, non la scalfiscono.

Il capo del Governo del Kerala, Oomen Chandy, preoccupato, chiede rassicurazioni al sottosegretario De Mistura circa il «sentimento anti-indiano che starebbe emergendo in Italia e del boicottaggio dei ristoranti indiani». L'India, una potenza economica emergente, ma non altrettanto avanzata dal punto di vista giuridico e democratico, non molla e fa la voce grossa. L'Afghanistan, Paese sottosviluppato, alza la voce ma subisce la legge della superpotenza, che si riserva di giudicare l'assassino di Kandahar in Patria.

Due pesi, due misure. A ben vedere è l'Italia a fare la figura del peso piuma, e poco importa che al Governo ci siano dei tecnici o dei professionisti della politica. Evidentemente sulla scena internazionale contano le norme giuridiche, ma ancora di più pesano la forza militare e la credibilità che una nazione si conquista nel corso degli anni.

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