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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2012 alle ore 14:43.

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Il vecchio Sangiaccato, regalato dai francesi negli anni Trenta ad Ankara per guadagnare la neutralità di Ataturk contro il Terzo Reich, è sempre stato un confine poroso e qui il primo ministro Tayyep Erdogan si sta giocando una partita strategica: il suo nome compare sulla strada principale, inciso su una sorta di arco di trionfo in metallo grigio hi tech.
Come spesso è avvenuto in passato il destino degli arabi, questa volta dei siriani, è in mano ad altri, certo non alla Lega Araba che venerdì si è riunita a Baghdad, dopo vent'anni dall'ultima volta, per decidere che forse è ancora troppo presto, o troppo complicato, liquidare il regime.
La Turchia ha imboccato la politica del doppio binario. Vorrebbe far fuori Assad e contenere ogni possibile irrendentismo dei curdi del Pkk, sostenuti da Damasco, la spina nel fianco di Ankara, ma tratta anche con l'Iran, ferreo alleato di Damasco.

Il rapporto con Teheran è ambiguo e irrita gli Stati Uniti. La Turchia ha accettato di schierare nella provincia di Malatya lo scudo anti-missile della Nato rivolto contro l'Iran e allo stesso tempo sostiene il diritto di Teheran al nucleare civile, proponendosi come mediatore. Lo ha fatto anche l'altro giorno con la visita di Erdogan al presidente Ahmadinejad e alla Guida Suprema Khamenei. In compenso Erdogan chiede all'Iran, per ora senza successo, di fermare Assad e adombra persino la possibilità di smantellare i radar dell'Alleanza.

Turchi e iraniani hanno forti interessi in comune. Ankara prende da Teheran il 20% delle forniture di gas e il 30% del petrolio, gli iraniani hanno insediato in Turchia circa 600 società, un grimaldello efficace per aggirare l'embargo. Soltanto ieri, dopo enormi pressioni americane, la Tupras, raffineria controllata dalla famiglia Koc, ha accettato di ridurre del 20% l'importazione di greggio iraniano, compensato da acquisti di greggio libico. Ma convincere i turchi a rompere con Teheran è più difficile che con i malleabili europei: questo è il secondo esercito della Nato e nel 2003 ha rifiutato agli americani il passaggio delle truppe dirette in Iraq.
Il destino dell'opposizione siriana sembra stretto nella morsa delle strategie regionali di Turchia, Iran e Stati Uniti. Erdogan può sostenere la guerriglia sul palcoscenico mediorientale ma eviterà un intervento armato, osteggiato al momento anche dagli Stati Uniti.

Lo sanno anche i tre feriti del Free Syrian Army che incontro all'ospedale Dafne di Antiochia: "Ci basterebbe una "buffer zone", una zona cuscinetto, per assicurare il soccorso umanitario", dice Khalil Khaddar. Il 10 marzo il suo gruppo ha attaccato i soldati a Latakia e mostra orgoglioso un video, già su YouTube: lui è stato ferito a una gamba ma è riuscito a passare il confine. Come gli altri due, Khlail porta una lunga barba islamica.

Gli chiedo se sono salafiti, fondamentalisti islamici. Una breve discussione a tre e arriva la risposta. "Essere salafiti è la normalità. E' una delle scelte che si hanno nell'islam. E' sbagliato legare i salafiti al terrorismo, noi siamo tutti musulmani, chi vuole dividerci sono gli iraniani sciiti che combattono a fianco di Assad".

Ma non insistono troppo, sono ospiti di Erdogan in una clinica con luminose camere singole, ben curati e nutriti davanti alla tv satellitare. La Dafne presenta conti salati, ovviamente pagati dal governo turco. Fuori, nelle strade di Antiochia, città dell'alloro e dei mosaici, guerriglieri libici e jihadisti sorseggiano il the nei bar affacciati sull'Oronte scrutando con discrezione le alture siriane. Un orizzonte forse sempre più lontano.

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