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Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2012 alle ore 11:53.

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Il primo. Diventato rettore del Pontificio Istituto Biblico, venni più spesso a Gerusalemme, cominciai a tessere rapporti con l'Università ebraica e incontrai allora personalità di grande rilievo; penso al rettore, al professor Shemariau Talmon che ancora oggi mi onora della sua amicizia, al professor Verbiowsky e molti altri. Definimmo insieme un programma secondo cui i nostri studenti di Roma, preti in gran parte, religiosi e religiose, potevano venire a frequentare un semestre all'Università di Gerusalemme, con corsi validi per loro. Mi era sembrato il modo migliore per far conoscere il mondo ebraico, la cultura, le tradizioni, anche il mondo scientifico.

Difatti quel programma dopo trent'anni funziona ancora e anche oggi partecipano al corso numerosi studenti.
Il secondo evento interessante è di essere stato chiamato, proprio in quegli anni, a far parte di un comitato ristretto di cinque persone che - con la collaborazione di specialisti di critica testuale, di filologia greca, di filologia aramaica, di storia delle traduzioni - si incaricava di una nuova edizione critica del Nuovo Testamento greco, la quale avrebbe dovuto essere la base per le traduzioni in 800 lingue. Ero l'unico italiano e l'unico cattolico. Fu davvero bella quella collaborazione, perché, pur essendo di diverse confessioni cristiane, ci ritrovavamo di fronte allo stesso testo praticamente come se non esistessero differenze. Il lavoro cominciava al mattino, secondo l'uso protestante con una preghiera su un testo biblico di circa mezz'ora, guidata a turno da uno di noi. Poi si prendevano in considerazione le singole parole del Nuovo Testamento, una per una, e si discuteva su ciascuna per un quarto d'ora, venti minuti, mezz'ora, un ora, fino a che ci trovavamo d'accordo su quale forma delle varianti doveva essere scelta. Questo durò settimane e settimane, per cui ebbi modo di imparare molto in quella compagnia e di constatare che le differenze confessionali non contano di fronte al testo biblico. (...)

Fra i legami che mi congiungono con Gerusalemme non è affatto da sottovalutare quello dell'esperienza di sant'Ignazio. Come gesuita, avevo letto fin dal noviziato la Vita del santo, dove racconta il suo proposito di vivere a Gerusalemme.

Stando qui, sento di obbedire a un impulso interiore, lo stesso di cui parla san Paolo nel suo discorso agli anziani di Efeso: «Avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà». Ma avverto pure la continuità con sant'Ignazio che nel 1500 venne qui e desiderava fortemente fermarsi in questa città, proprio per amore del Signore Gesù e dei misteri della sua Passione, morte e risurrezione, che voleva venerare da vicino. Il suo sogno si è avverato almeno per me e per la piccola comunità di gesuiti che vive a Gerusalemme.

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