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Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2012 alle ore 12:07.

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Di qui si vede che il concetto di Dio che di solito ci facciamo con un ragionamento che parta dalla considerazione dei tempi brevi della natura non è adeguato alla complessità e ai tempi dello sviluppo del cosmo.
É piuttosto in un'altra direzione che ci invitano a cercare eventi come quello dello tsunami, tenendo presente anche il fatto che un evento del genere, che pur ci appare catastrofico, non raggiunge la drammaticità per esempio dei 6 milioni di bambini che muoiono ogni anno per fame. Se poi pensiamo a tutta la malvagità che si rovescia sulla terra a opera della crudeltà, della stupidità e della perversione umana, c'è da essere atterriti.
La soluzione più semplice di fronte a tutto ciò è certamente quella di affermare che Dio non c'è. É la lectio facilior, quella che sembra risolvere alla radice il problema, ma che lascia senza risposta tante altre domande di senso.

Anche il credente è scosso da simili eventi, ma è spinto a cercare nel senso della lectio difficilior, invertendo la rotta di una considerazione che parta dal cosmo o dalla cattiveria umana per una considerazione che parta dalla verità profonda del cuore dell'uomo e dalla compassione che lo muove. In questo si appoggia alla parola di uno dei primi discepoli di Gesù che diceva: (I Lettera di Giovanni, 4,12).

Il credente si domanda in particolare come si spiega quella tenace, coraggiosa, instancabile resistenza al male e quella invincibile volontà di vita che gli uomini hanno sempre espresso durante la loro lunga storia sulla terra, e che anche in occasione dello tsunami ha suscitato ovunque gesti straordinari di vicinanza e di bontà, al di là di ogni etnia o religione. Nei viventi vale certo l'istinto di sopravvivenza, ma nel vivente pensante che è l'uomo tale principio si esprime anche come speranza, come fiducia nella vita malgrado tutto. In esso il credente vede il sigillo dello Spirito di Dio. Due parole caratterizzano questo atteggiamento. Sono quelle che danno il titolo alla raccolta delle ultime lettere di Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti nel 1945. Esse sono (nel tedesco ). Resistere al male fino alla fine, lottare contro il male con tutte le forze, come ha fatto Gesù nella sua vita pubblica. Ma insieme sapersi nelle mani di un Dio che ci ama, sapere che se noi ci abbandoniamo a lui egli non ci abbandona. É l'atteggiamento di Gesù nella sua passione, come abbiamo ricordato in questi giorni: (Luca, capp. 22 e 23).

Certamente va accettato, ed è duro accettarlo, che anche l'immagine di un Dio amore non è incompatibile con la sofferenza e la morte. La presenza del male, sia di quello connesso con l'evoluzione del cosmo, sia quello ancora più drammatico della violenza scatenata dagli uomini, non sono incompatibili con una immagine di Dio che ama l'uomo e lo chiama ad affidarsi a lui e ad amare il prossimo come se stesso.

É proprio ciò che afferma la Pasqua che celebriamo in questi giorni: che la morte ignominiosa e crudele di Gesù è addirittura la morte del figlio, di colui che è sommamente amato dal Padre suo: ma il mistero di Pasqua ci dice che questa morte non è l'ultima parola. Essa culmina in una parola di vita e di vittoria sulle forze della distruzione e del male.

Dunque il grido che caratterizza la Pasqua cristiana, l'annuncio (quello che i nostri fratelli ortodossi si scambiano come augurio nel tempo di Pasqua, rispondendo ), è anche l'ultima parola sulla storia impietosa del cosmo e su tutte le tragiche vicende imposte dalla crudeltà dell'uomo. Allora anche le catastrofi naturali ci spingono a far sì che la violenza che è nel cuore dell'uomo sia vinta da un senso più forte di compassione e di pietà.

Non più violenza, non più sopraffazione di un essere umano contro un altro essere umano. É questa la lezione che ci viene anche dal nuovo Museo della Shoà, inaugurato pochi giorni fa a Gerusalemme. É il messaggio, tra molti, che ci giunge da una bambina ebrea di Milano, deportata ad Auschwitz quando aveva tredici anni. Dopo avere sofferto umiliazioni e privazioni di ogni tipo, nel momento in cui, al termine della prigionia, sarebbe stato facile vendicarsi uccidendo il comandante del campo, ha gridato dentro di sé: .

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