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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2012 alle ore 08:05.

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Corsi e ricorsi della storia per l'Eurozona. Sul finire del 1991 a Maastricht viene firmato il trattato per l'adozione della moneta unica entro la fine del decennio, ma nel settembre del 1992, giusto vent'anni fa, esplode la crisi valutaria: lira e sterlina escono dal Sme (il Sistema monetario europeo, che legava le valute partecipanti a una griglia di cambio predeterminata) e il rendimento dei titoli di stato schizza all'insù. Venerdì 11 settembre i tassi sul mercato monetario arrivano a sfiorare il 40 per cento. Anche l'esito positivo del referendum francese sull'Unione monetaria europea (con esigua maggioranza di sì), il 20 settembre, allenta solo in parte le tensioni sui mercati.

Per capire il perché della crisi bisogna tornare indietro di tre mesi: il 2 giugno i cittadini danesi si pronunciano, seppur di misura, contro la ratifica del trattato di Maastricht. «Una scintilla apparentemente trascurabile quale un referendum in uno dei paesi più piccoli d'Europa, fa divampare un incendio senza precedenti nel cantiere della costruzione economica e monetaria europea»: così scrive Fabrizio Saccomanni, attuale direttore generale della Banca d'Italia, nel libro collettaneo "Il cammino della lira da Bretton Woods all'euro", edito nel 2007 in occasione dei cinquant'anni del Forex. «I mercati sono rapidissimi a realizzare le implicazioni del referendum e un'ondata speculativa senza precedenti investe anzitutto le valute Sme le cui economie presentano maggiori criticità sul fronte dei fattori fondamentali, rendendo le parità poco credibili: la lira è una delle vittime più colpite».

A fronte dell'aggravarsi delle tensioni, a fine agosto, le posizioni dei principali paesi anziché convergere verso una soluzione concordata si irrigidiscono: in Francia si vogliono evitare riallineamenti prima del referendum, in Germania si ritiene che manchino i presupposti per una riduzione dei tassi ufficiali e il 5 settembre l'Ecofin di Bath si limita a una dichiarazione sulla volontà di non modificare le parità Sme, di scarso impatto sui mercati.

Il passaparola era che la crisi riguardava soprattutto l'Italia. Come sottolinea invece Paolo Peluffo nel suo libro "Carlo Azeglio Ciampi. L'uomo e il presidente", pubblicato nel 2007 da Rizzoli, in quel settembre 1992 i partner europei stentarono a capire che si era in presenza di una crisi sistemica dello Sme. Proprio come ebbe a dire Ciampi, allora governatore della Banca d'Italia, in un discorso tenuto alcune settimane dopo a Parigi: la crisi si poteva superare solo reinterpretando lo Sme quale anticipazione della moneta unica; serviva un impegno collettivo oppure sarebbe stato travolto anche il più modesto meccanismo di cambio.

«Negoziati febbrili si svolgono nel weekend del 12-13 settembre – ricorda ancora Saccomannni – l'Italia dà la sua disponibilità alla svalutazione, ma sostiene che un riallineamento della sola lira non sarebbe credibile per i mercati, specialmente se non accompagnato da un allentamento della restrizione monetaria in Germania. L'esito sarà che la lira svaluta del 7%, tutte le altre parità restano invariate, la Germania riduce il tasso di sconto di un minuscolo quarto di punto. Con questa poco lusinghiera performance, lo Sme si presenta sui mercati lunedì 14 settembre». Nei giorni seguenti nuove tensioni speculative investono la lira, la sterlina e la peseta: Italia e Gran Bretagna annunciano di uscire dagli Accordi europei di cambio, la Spagna svaluta la peseta del 5 per cento. Tra il novembre 1992 e il maggio 1993 svalutano due volte ciascuna la peseta spagnola e l'escudo portoghese e una volta – del 10 per cento – la sterlina irlandese. Si realizza così, in un'altalena di tensioni sui mercati, quel riallineamento ampio dello Sme che l'Italia aveva proposto senza successo nel settembre 1992. Intanto la nostra Banca centrale riporta gradualmente il tasso di sconto ai livelli pre-crisi e ricostituisce le riserve in valuta.

Ma la strada verso la moneta unica non sarà tutta in discesa. Nel 1995 Francia e Germania, i due grandi vicini del Reno, elaborano un concetto di Unione monetaria ristretta: partiamo intanto noi, con i piccoli paesi già adeguatamente integrati (Benelux e, dopo il suo ingresso, l'Austria), gli altri seguiranno. Teorizzato nel documento Schaeuble-Lamers, dal nome dei due consiglieri per la politica europea del cancelliere Helmut Kohl, nasce una sorta di "nocciolo duro", la culla blindata dell'euro. Per l'Italia, fino alla metà del 1996, la difficoltà di uscire dal periodo recessivo dell'economia, la crisi politica e lo scostamento dei nostri dati macroeconomici dai parametri di convergenza previsti dal trattato di Maastricht, ci davano pochi margini di speranza. All'epoca ci separavano 300 punti base nei tassi di interesse fra i Btp decennali italiani e i Bund tedeschi di equivalente durata, ma ancora nel marzo 1995, con la lira vicino a quota 1.300 sul marco, lo spread era di 600 punti base. Nel mese di dicembre del 1996 lo spread Btp-Bund sarebbe poi sceso per la prima volta sotto i 200 punti.

Con l'intenzione di stabilire una sorta di asse mediterraneo per ritardare insieme l'ingresso nell'euro, il presidente del consiglio Romano Prodi incontra il premier spagnolo Aznar a Valencia il 15 e 16 settembre 1996, ricevendone però una risposta netta: Madrid aveva la "clarissima determinacion" di entrare nell'Unione monetaria fin dall'inizio. Si racconta che la notte stessa Prodi e il suo ministro del Tesoro Ciampi gettarono le basi per la maxi-finanziaria 1997, con l'Eurotassa incorporata (la pressione fiscale italiana salì di 2 punti rispetto al Pil). Due mesi dopo, in novembre, l'Italia può chiedere il rientro nello Sme e la parità con il marco tedesco viene fissata a quota 990. Questa decisione era necessaria per rispettare un preciso criterio di Maastricht, che prevedeva la partecipazione allo Sme nei due anni precedenti l'Unione monetaria. A fine 1997 il deficit sotto il 3% del Pil era ormai a portata di mano.

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