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Questo articolo è stato pubblicato il 16 settembre 2012 alle ore 19:17.

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Ancora polemiche e parole dure per Fiat, nel day after l'annunciato addio a "Fabbrica Italia". Sembra passato un secolo - ma sono solo sei mesi - da quando, a metà marzo, i vertici Fiat hanno fatto visita al premier entrando a Palazzo Chigi a bordo di un nuovo modello Panda, con l'ad Fiat Marchionne in vena di ottimismo: «continueremo gli investimenti secondo i nostri programmi. Non ci sono novità. Non chiederò nulla. Non voglio assolutamente niente».

Le domande cui il Lingotto non risponde
Le novità, nel frattempo, ci sono state, a cominciare dal crollo del mercato dell'auto e il mancato arrivo di nuovi modelli Fiat, culminate nell'annuncio di un ripensamento dell'azienda sul piano Fabbrica Italia incentrato su 20 miliardi di investimenti al 2014. Gli ultimi sviluppi mettono in allarme l'ex ministro del Lavoro e capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, che davanti alla cancellazione del piano Fabbrica Italia, sottolinea come «il governo non può limitarsi ad auspicare un incontro di chiarimento con Fiat, lo deve pretendere». Quando diciamo che vorremmo in Italia una politica industriale a sostegno dei settori strategici, aggiunge, «non stiamo parlando della luna, ma di quanto è stato fatto da Obama, Merkel e Hollande a difesa dei rispettivi settori dell'auto. A questo punto il paese deve sapere quale è il nuovo progetto della Fiat: quali investimenti, quali nuovi prodotti, in quali stabilimenti e con quanta occupazione».

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Sindacati sul piede di guerra
Dopo le reazioni a caldo, oggi il fronte sindacale ha visto anche la netta presa di posizione di Claudio Angeletti (Uil): «Non possiamo accettare riduzioni della capacità produttiva. Noi crediamo ancora che la Fiat possa restare una casa automobilistica competitiva ma perché ciò sia possibile bisogna crederci e fare gli investimenti necessari». Attenzione alle divisioni tra sigle sindacali, mette in guardia Giovanni Centrella, segretario generale Ugl, che raccomanda un maggiore impegno «per superare un oggettivo andamento del mercato recuperando le quote perse». Tutti, spiega, devono fare attenzione «a non dare alibi a Fiat di andarsene dall'Italia. Se il Paese dovesse perdere Fiat, anche se non crediamo che il Lingotto abbia voglia di lasciarlo, - conclude Centrella - a rimetterci saranno principalmente i lavoratori del Centro-Sud».

Cgil: «il paese è stato preso in giro»
Parole di fuoco, dopo le dure critiche di ieri, sono arrivate in giornata anche dal segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che in serata parteciperà ad un incontro a Conversano (Bari), proprio su Fiat e il futuro di "Fabbrica Italia". Il tema, spiega, «non è il calo di produzione che riguarda tutti, il tema è che non c'è alcuna politica industriale che contrasti quel calo di produzione e permetta di immaginare di recuperarlo». Sulla Fiat «si è giocata una partita anche molto pesante nel Paese - ha aggiunto Camusso - sul piano della democrazia sindacale, degli accordi sindacali in ragione di quel piano». «Pare evidente - ha detto ancora - che oggi il problema è sapere che quel modello non funziona, che non c'è un piano industriale, che c'è un Paese che è stato ampiamente preso in giro».

Politici locali in campo
Le scelte del Lingotto agitano anche la politica locale, a cominciare dal sindaco di Torino, Piero Fassino, che incita Monti ad agire («il governo non sia solo notaio»), seguito dal governatore del Piemonte, che sul suo profilo Facebook gioca la carta dei legami con il territorio. «La Fiat non è un'azienda come un'altra. Per Torino e per il Piemonte è un simbolo. La famiglia Agnelli ci ha sempre tenuto a essere un riferimento per il territorio, adesso non può scappare alla chetichella». Sul tavolo, Cota mette anche i finanziamenti all'azienda da parte delle Autonomie: Fiat, sottolinea nel suo post, «ha ricevuto, negli anni, molte attenzioni dalle amministrazioni locali; si ricordi, ad esempio, la operazione Tne dove si sono impiegati soldi pubblici per alleggerire Fiat dal peso di una dismissione industriale complicata. Allora, non possiamo essere trattati come un territorio qualsiasi, facendo un mero calcolo ragionieristico sulla convenienza a produrre».

Destra e sinistra in pressing su Marchionne
Da Roma, molti tornano a chiedere chiarimenti. Il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, rivendica gli sforzi della politica per favorire il rilancio del Lingotto: «Siamo stati del tutto consenzienti ad assicurare condizioni di gestione del lavoro che consentissero di affrontare la concorrenza mondiale, ma fra gli obiettivi di questa scelta c'era anche quello di mantenere decisive fabbriche in Italia oltre a conseguenti 20mld di investimenti. Il discorso diventa assai diverso se invece la Fiat malgrado ciò e anche altri tipi diaiuto chiude fondamentali fabbriche in Italia». Marchionne - conclude - non andava osteggiato per ragioni ideologiche quando ha definito il piano denominato "Fabbrica Italia", ma non va certo preso a scatola chiusa adesso che sembra smantellarlo». Da sinistra, esprime perplessità anche il candidato alle primarie del Pd Matteo Renzi, dindaco di Firenze. «Ho detto sì al referendum Fiat per il progetto Fabbrica Italia, spiega nel corso di un'intervista che sarà trasmessa stasera nel corso della puntata di "In Onda" (La7), ma oggi che Marchionne dice di no, bisogna andare a chiedere a lui il perché ha cambiato idea e non a noi, che abbiamo detto di sì al referendum».

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