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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2012 alle ore 19:37.

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«Mi chiamo Pierangelo Daccò e risolvo problemi». Ora, con una condanna a dieci anni di reclusione e cinque milioni di provvisionale (immediatamente esecutivi) da versare alla procedura della Fondazione San Raffaele, sembra che i problemi siano diventati i suoi.

Daccò, il faccendiere della sanità, colui che pur non conoscendo, per sua stessa ammissione, le specificità tecniche e le puntuali necessità delle singole specializzazioni ospedaliere, era in grado di pescare dal cilindro sempre l'uomo giusto al posto giusto: colui che poteva trasformare l'impossibile in decisione assunta.

La condanna, emessa dal Gip Maria Cristina Mannocci, è stata definita "dai piedi d'argilla" dall' avvocato di Daccò Giampiero Biancolella (già annunciato il suo ricorso in appello) ma supera quasi del doppio quella richiesta dal coordinatore del pool di magistrati che si stanno occupando del dissesto dell'ospedale San Raffaele e della sua Fondazione (la Monte Tabor): il pm Luigi Orsi aveva richiesto cinque anni. I reati contestati a Daccò erano concorso in bancarotta fraudolenta, associazione per delinquere finalizzata a reati fiscali e appropriazione indebita. Assolto il coimputato Andrea Bezzicheri, imprenditore, per il quale Orsi aveva chiesto una condanna a tre anni. Gli altri imputati, i costruttori Pierino e Giovanni Luca Zammanchi, l'imprenditore Fernando Lora e il suo amministrativo, Carlo Freschi, saranno giudicati in un processo che si sta svolgendo, con rito ordinario, presso la terza sezione penale del tribunale di Milano.

L'ipotesi dell'accusa era che Daccò fosse una sorta di lobbista con il compito preciso di creare "eccedenze" di liquidità dai vari appalti e dai vari contratti di fornitura, attraverso i quali fare fuoriuscire denaro da retrocedere al vecchio management dell'ospedale. In altri termini: fondi neri per pagare stecche. Più che un uomo, dunque, Daccò era un crocevia, da cui quasi obbligatoriamente – è la tesi dell'accusa (e ancor più del Gup) - passava l'intenso flusso di denaro che partiva dall'ospedale di Cologno Monzese per polverizzarsi altrove: visto che la bancarotta della Fondazione creata da Don Luigi Verzè è stata quantificata in ben oltre un miliardo di euro.

Fossero immobili come l'Hotel Raphael, insegna scarlatta visibile dalla tangenziale est di Milano, costruito dalle due società dei Zammanchi, la Diodoro e la Metodo, o l'acquisto di un immobile in Sudamerica (Cile), o di un Jet privato executive, Daccò era là. A dirigere il traffico del denaro e a veicolarlo verso l'affollata galassia di società dislocate nei più disparati paradisi fiscali: a Madeira, come alle Cayman, in Olanda come in Svizzera.

Ma Daccò era un vero e proprio punto di riferimento. Non solo per gli uomini del San Raffaele, ma pure per una pluralità di soggetti attivi nella sanità in tutti i suoi comparti "pubblica-pubblica, privata-pubblica, privata-privata e privata-onlus" come, in un interrogatorio, lo stesso Daccò ebbe a descriverla al pm Antonio Pastore. Daccò è infatti sotto inchiesta anche per la vicenda delle distrazioni alla Fondazione Maugeri di Pavia su cui stanno indagando gli stessi magistrati che stanno lavorando all'inchiesta sul San Raffaele. Oltre a Orsi e Pastore, anche i pm Gaetano Ruta e Laura Pedio.

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