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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2012 alle ore 09:35.

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Il 20 ottobre 2011, esattamente un anno fa, moriva Muammar Gheddafi, dopo essere stato per quarantadue anni, un mese e qualche giorno a capo della Libia. Non era nel suo letto. Non era in una delle stanze delle sue dimore, il cui arredamento ultrakitsch è stato rivelato da fotografie successive alla sua uccisione. Non era sotto la tenda beduina che amava farsi concedere di piantare qua e là in giro per il mondo, come una strafottente bandierina.

Era braccato, in fuga. Smarrito come uno delle migliaia di clandestini dell'Africa subsahariana che periodicamente affollano le spiagge della Libia in cerca di un'imbarcazione che li porti in Europa. Qualche settimana prima dell'anniversario della caduta del rais di Tripoli, l'"Abbasso al tiranno!" postumo si è arricchito di un nuovo tassello, il libro "Les proies. Dans le harem de Kadhafi" ("Le prede. Nell'harem di Gheddafi"), pubblicato in Francia dall'editore Grasset.

Un'inchiesta che non contribuisce certo a una rapida damnatio memoriae del satrapo libico quanto piuttosto ad arricchirne la leggenda nera. Nera senz'altro, leggenda mica tanto se si ascolta l'autrice del volume, l'inviata di Le Monde Annick Cojean. In un'intervista rilasciata per Paris Match alla collega Valérie Trierweiler, compagna del presidente francese François Hollande, Annick Cojean si dice infatti sicura della veridicità delle testimonianze da lei raccolte sulle abitudini sessuali di Gheddafi.

Dal libro emerge la figura di uno stupratore seriale di ragazze e ragazzi, scelti con una carezza sulla testa durante la visita in una scuola, oppure individuati nel corso di irruzioni da imbucato eccellente, e in ogni caso impossibile da respingere, in cerimonie matrimoniali, oppure ancora procacciati da emissari preposti alla soddisfazione del desiderio del despota di umiliare sessualmente le sue vittime.

Tre, quattro, cinque volte al giorno, Gheddafi, secondo quanto viene raccontato nel libro, era solito riproporre in privato, nei sotterrannei dei suoi palazzi, un'ancor più sordida replica del suo spadroneggiare pubblico. In una proiettività delirante delle sue violenze, specie nei mesi della rivolta popolare contro il suo regime, il colonnello avrebbe sollecitato i suoi uomini a comportarsi come lui, utilizzando lo stupro come arma più affilata contro gli insorti.

Lo scenario tratteggiato dalle testimonianze raccolte dalla giornalista francese Cojean infligge un'ulteriore pennellata del colore del sangue sulla biografia del rais libico. Già prima della rivolta che ha causato la sua caduta con un non irrilevante "aiutino" militare fornito dall'Occidente e da altri paesi arabi, Gheddafi fu considerato a lungo un arcicattivo. Finanziatore di Settembre Nero, organizzazione responsabile della strage alle Olimpiadi di Monaco del 1972, nonché del Consiglio Rivoluzionario al-Fath guidato da Abu Nidal, a cui si attribuiscono decine di azioni armate tra cui gli attacchi agli aeroporti di Vienna e Fiumicino del 1985. Fornitore di logistica e teatri di addestramento per numerose organizzazioni terroristiche arabe ed europee.

Mandante dell'attentato aereo di Lockerbie che nel 1988 fece 270 vittime. Il colonnello accumulò di tutto nel suo torbido palmarès. E nel 1986 fu anche destinatario di un bombardamento sul territorio libico da parte dell'America di Ronald Reagan. Eppure, dopo l'affacciarsi dell'estremismo islamista targato al Qaida, Gheddafi aveva riconquistato un ruolo di amico dell'Occidente. Non furono ininfluenti al riguardo alcuni buoni consigli.

Ad esempio quelli ricevuti dal leader sudafricano Nelson Mandela, che non aveva dimenticato il supporto fornito al movimento anti-apartheid dal dittatore libico che, tutto preso dal suo ruolo di sedicente messia panafricano, una volta tanto aveva sposato una buona causa, fornendo appoggio all'African National Congress negli anni in cui a Pretoria la minoranza bianca opprimeva la maggioranza nera. Nella sua nuova veste di moderato, capace di fare argine davanti al dilagare del fanatismo religioso armato, di smantellare mansuetamente il proprio programma nucleare, di assumersi le responsabilità dell'attentato di Lockerbie, Gheddafi riconquistò l'accesso verso le diplomazie occidentali, verso i leader europei e verso le capitali, tra cui Roma ma anche Parigi, che visitava con seguiti da kolossal hollywodiano in costume e scenografie pompier.

Dopo essere stato per anni in cima alla black-list, al rais libico per una stagione non brevissima fu accordato nuovo credito, con la bonomia che si riserva allo zio strambo d'Oltremare che si veste in modo eccentrico, rintrona gli interlocutori con una confusa logorrea e ama la sparata paradossale. In quel periodo lontano soltanto pochi anni, Gheddafi ormai non era più collocato sul podio dei nemici dell'Occidente (e del proprio popolo), ma era considerato tutt'al più come un briccone, una vecchia volpe, una lenza, un maramaldo del palcoscenico globale, un ex despota un po' bollito ormai più incline ad acconciarsi una zazzera ormai diradata, a indossare occhiali da sole da postsbornia, e a scegliere mises stravaganti che non a opprimere i libici.

Poi, dopo lo scoppio della Primavera araba a cui per ora è seguita un'estate dal sole incerto che è comunque pur sempre meglio dell'inverno, il colonnello tornò a risalire con grande rapidità la lista dei tiranni da abbattere. E fu abbattuto. E ora, dopo l'uscita del libro di Annick Cojean, anche le fotografie delle celebri "amazzoni" della sua guardia del corpo, che avevano fatto addirittura pensare a una bizzarra forma di femminismo gheddafiano e avevano fornito materiale a molti articoli di costume, assumono una tinta livida che ricorda una sorta di "Salò" pasoliniano girato a Tripoli.

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