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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2012 alle ore 16:27.

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BOLOGNA - È rimasta per 4 ore davanti al procuratore aggiunto di Bologna Valter Giovannini e al titolare dell'inchiesta Giuseppe di Giorgio.

Zoia Veronesi, la segretaria di Pierluigi Bersani, accusata di truffa aggravata per avere (secondo l'accusa) svolto, a Roma, un lavoro per il Partito Democratico quando era ancora dipendente della Regione, ha scansato i giornalisti che l'attendevano all'uscita della Procura di Bologna, ma non ha scansato le domande dei magistrati. Secondo quello che ha dichiarato il suo avvocato, Pier Luigi Trombetti, la signora Veronesi: «Ha puntualmente risposto a tutte le domande poste dagli inquirenti, fornendo specifiche precisazioni a dimostrazione della insussistenza dell'ipotesi di reato che le è stato contestato». Nulla di più dettagliato emerge su quanto raccontato da Veronesi ai due pm: la Procura ha infatti secretato l'interrogatorio. La ragione della secretazione è stata spiegata, ancora una volta, dal legale dell'accusata che ha motivato la decisione «in ragione delle indagini in corso».

A distanza di un paio di giorni dall'iscrizione nel registro degli indagati della segretaria del numero uno del Pd, la cui posizione ora è anche sotto la lente della Corte dei Conti, il danno alle casse regionali, da cui proveniva il suo stipendio, è stato stimato dalla magistratura in 150mila euro. 150mila euro che, se l'accusa fosse confermata in sede processuale, sarebbero stati indebitamente percepiti da Zoia Veronesi in un anno e mezzo, a partire dalla fine di maggio 2008, quando ottenuta l'investitura dirigenziale (con delibera firmata da un altro indagato, Bruno Solaroli), è stata incaricata di tenere i rapporti con l'amministrazione centrale. Il punto dolente della questione, quello che oggi l'ha fatta finire faccia a faccia con i magistrati, è che dagli accertamenti non risulta traccia di questo suo lavoro.

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