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Questo articolo è stato pubblicato il 07 novembre 2012 alle ore 06:36.

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BRUXELLES. Dal nostro corrispondente
Non c'è elezione americana che non tenga la classe politica europea con il fiato sospeso. È tale l'attesa che alcuni uomini politici non esitano a prendere posizione, anche quando il loro ruolo dovrebbe imporre maggiore cautela. È successo al primo ministro francese Jean-Marc Ayrault che qualche giorno fa, ignorando le regole della buona politica, ha annunciato pubblicamente il suo sostegno al presidente uscente Barack Obama.
Altri governanti europei sono stati più prudenti, ben sapendo che all'indomani del voto, vale a dire da oggi se lo spoglio delle schede non avrà seguiti giudiziari, dovranno comunque lavorare con il nuovo inquilino della Casa Bianca, sia esso il democratico Barack Obama o il repubblicano Mitt Romney. Dal commercio internazionale alla crisi debitoria, dal rapporto con la Cina al futuro dell'Afghanistan, i dossier transatlantici sono molti e non possono essere ignorati.
Intervistato dalla Fondation Robert Schuman, Justin Vaïsse, un ricercatore francese della Brookings Institution e autore di "Barack Obama et sa politique étrangère" spiegava di recente: «Non credo che l'elezione dell'uno o dell'altro modificherà profondamente le cose, anche se istintivamente gli europei si sentono più vicini alle posizioni internazionali di Obama». C'è, sempre secondo Vaïsse, «un grande potenziale per cooperare, giustificato peraltro da un crescente multipolarismo».
Proprio in queste settimane, l'Europa e gli Stati Uniti stanno valutando se iniziare il negoziato per un nuovo ambizioso accordo di libero scambio sui due lati dell'Atlantico. Nel frattempo, devono trovare un modus vivendi con la Cina, un Paese da cui sono ambedue dipendenti, fosse solo perché è un enorme mercato di oltre 1,2 miliardi di persone, ma di cui vorrebbero in alcune circostanze limitare o almeno influenzare il potere, politico ed economico.
Poi naturalmente c'è anche la crisi debitoria europea. Più volte in questi anni gli Stati Uniti hanno esortato l'Europa a rafforzare i livelli di integrazione tra i Paesi della zona euro, criticando non poco le ritrosie europee, e in particolare tedesche. Washington ha fatto capire a Bruxelles che non è nell'interesse americano affrontare un'uscita della Grecia dall'unione monetaria. Nonostante lo scetticismo di molti intellettuali americani, prevale il pragmatismo.
Secondo un sondaggio pubblicato la settimana scorsa dalla società inglese YouGov, il 90% degli europei avrebbe votato Obama, se avesse potuto. La classe politica europea è comunque consapevole di come l'establishment americano guardi spesso più a Ovest, verso la Cina, che a Est, verso l'Europa. «Dobbiamo capire - sostiene il deputato socialdemocratico tedesco Thomas Oppermann - che l'Europa non è più così importante per la politica estera americana. E questo è vero anche per Obama». Ciò detto, nello stesso modo in cui l'Europa avrà bisogno dell'America, non foss'altro che per gestire il ruolo controverso dell'Fmi nella crisi debitoria, gli Stati Uniti guarderanno comunque all'Ue per risolvere alcune crisi internazionali. L'attuale segretario di Stato Hillary Clinton ha affermato di recente che la politica estera si fa in Asia. Ciononostante, per ora, c'è ancora più sintonia tra Europa e Stati Uniti che tra Asia e America.

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