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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2012 alle ore 16:48.

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Il generale Petraeus con Obama (Afp)Il generale Petraeus con Obama (Afp)

La domanda che occorre porsi dopo le dimissioni di David Petraeus da direttore della Cia è se Barack Obama, appena rieletto alla Casa Bianca, sia vittima o carnefice dell'uscita di scena del generale eroe della contro-insurrezione.

Ovviamente le dimissioni del generale che aveva vinto la guerra irachena costituiscono la prima vera "grana" sul tavolo di Obama nel suo secondo mandato presidenziale, ma forse è possibile configurare scenari diversi. È un fatto che appena dopo la vittoria elettorale il presidente ha dovuto fare i conti con gli addii del segretario di Stato Hillary Clinton, del numero uno del Pentagono Leon Panetta (alla guida della Cia prima dell'arrivo di Petraeus) e, ora, dello stesso Petraeus.

Insomma, cambiano tutti i protagonisti della politica estera e militare di Washington. Fosse capitato a George W. Bush i media di mezzo mondo avrebbero titolato sul collasso dell'amministrazione e su un presidente sfiduciato dai suoi più stretti collaboratori.

La politica estera e di difesa di Obama (a partire dal «leading from behind» che vede gli americani agire a più basso profilo sui campi di battaglia) è per molti versi rivoluzionaria rispetto al tradizionale ruolo di stabilizzazione giocato in prima linea dagli Stati Uniti.

In Medio Oriente e Nord Africa la Casa Bianca ha favorito, anche con le armi, l'affermazione dei movimenti islamisti a spese di regimi laici e filo-occidentali mentre la politica tentennante di Washington nei confronti dell'Iran ha portato gli ayatollah a un passo dal possedere "la bomba" e il gelo nei rapporti tra Stati Uniti e Israele.

In Asia Centrale il ritiro dall'Afghanistan (criticato da Petraeus quando guidava le truppe a Kabul) rischia di allargare la destabilizzazione jihadista coinvolgendo anche India, Cina e Russia. Scenari che non consentono di escludere forti dissidi tra il presidente e i suoi collaboratori di punta che, per ragioni diverse, lasciano tutti insieme il loro posto.

La relazione extraconiugale di Petraeus con la sua biografa quarantenne Paula Broadwell, durata un anno e conclusasi sei mesi or sono secondo il Wall Street Journal, potrebbe rappresentare uno specchietto per le allodole.

La relazione c'è stata e, come riferisce la Nbc, l'Fbi ha aperto un'inchiesta indagando la Broadwell (ex militare ora scrittrice e insegnante al Center for Public Leadership di Harvard) «per aver tentato impropriamente di accedere alla email di Petraeus con il possibile obiettivo di ottenere informazioni coperte da segreto». Un'accusa che suscita qualche perplessità anche perché le mail tra Petraeus e "l'amica" erano finite all'attenzione dell'Fbi già qualche mese prima, quando il generale si trovava ancora in Afghanistan.

Stupisce però che nonostante il rischio per la sicurezza nazionale il Federal Bureau of Investigation abbia informato le Commissioni per l'Intelligence di Camera e Senato circa queste indagini solo la scorsa settimana, come riferisce il New York Times , anche perché è indubbio che l'inchiesta federale costituisce sul piano politico un efficace strumento di pressione, specie su un uomo come il generale Petraeus.

Il direttore della Cia appare infatti come un perfetto capro espiatorio nella vicenda dell'attacco dei jihadisti al consolato di Bengasi, l'11 settembre scorso, nel quale venne ucciso l'ambasciatore Christopher Stevens e altri tre statunitensi.

Un episodio che ha evidenziato tutti i limiti e le contraddizioni della politica estera di Obama che, rinunciando a perseguire con raid militari i colpevoli, ha visto calare ulteriormente il suo livello di popolarità negli ambienti militari. Grazie anche a indiscrezioni fatte trapelare probabilmente da ambienti vicini al Dipartimento di Stato, la Cia è finita nell'occhio del ciclone per la morte di Stevens, che avrebbe potuto essere soccorso da una base segreta dell'agenzia d'intelligence situata vicino alla sede del consolato.

Difficile appurare come stiano realmente le cose ma ai funerali di Stevens strideva l'assenza di Petraeus, le cui dimissioni giungono a pochi giorni dalla relazione che avrebbe dovuto presentare al Congresso proprio suoi fatti dell'11 settembre a Bengasi.

Di certo a Langley, sede del quartier generale della Cia, Petraeus si era fatto molti nemici tra i dirigenti dell'agenzia ai quali ha imposto uno stile "militaresco" introducendo criteri strettamente meritocratici per l'attribuzione di benefit e premi retributivi. Petraeus ha colpe gravissime per la morte di Stevens ma si è dimesso solo dopo le elezioni per non mettere in imbarazzo il presidente?

Oppure è il presidente Obama che dopo la vittoria ai seggi scarica Petraeus, capro espiatorio ideale per i fatti di Bengasi, utilizzando la giustificazione del tradimento coniugale tenuta a lungo nel cassetto? In ogni caso la soluzione delle dimissioni risulta , in prospettiva, accettabile per entrambi.

Consente a Obama di scaricare su altri le responsabilità del disastro di Bengasi e a Petraeus di salvare in modo onorevole una brillante carriera che nei prossimi anni (il generale ne ha 60) potrà essere spesa anche in campo politico con la candidatura repubblicana alla Casa Bianca intorno alla quale da tempo circolano voci.

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