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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2012 alle ore 10:45.

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Andiamo verso una nuova Libia? Il riconoscimento americano della Coalizione degli insorti come rappresentante legittimo del popolo siriano, seguita oggi anche dalla dichiarazione europea di Marrakesh dello stesso tenore, segna una svolta forse ancora maggiore dello schieramento dei Patriot della Nato ai confini della Turchia. Anche se la Francia e altri Paesi che fanno parte del gruppo "Amici della Siria" affermano di non essere pronti a fornire cannoni agli insorti, la questione siriana imbocca decisamente la via delle armi.
Ricorda per certi versi quanto avvenne con la legittimazione del Consiglio transitorio nazionale di Bengasi che si opponeva alla dittatura di Gheddafi. Anche se è vero che questa decisione americana è stata accompagnata da Washington da una "lista nera" dei gruppi siriani ritenuti di stampo terroristico, che oltre alle milizie filo-regime degli shabiha comprende il Fronte al Nusra, il gruppo di combattenti islamici radicali ritenuto molto vicino ad Al Qaida e uno dei più attivi sul campo con azioni di guerriglia e attentati di stampo iracheno.

Non stupisce quindi la reazione assai irritata di Mosca che in questi mesi ha ripetuto come un mantra che "la Siria non sarà la Libia". Non hanno torto i russi quando sostengono che vengono violati gli accordi raggiunti nel luglio scroso quando al vertice internzionale di Ginevra si sosteneva la necessità di una via di uscita politica con un negoziato tra il regime e l'opposizione. Ma è pure vero che ormai questo dialogo non appare più realistico nei termini disegnati allora.
Gli stessi russi, che in Siria mantengono la base militare nel porto di Tartous, la loro ultima nel Mediterraneo, hanno dato l'impressione di non riuscire a influire su Bashar Assad, abbarbicato al potere e sotto assedio a Damasco: questo era già emerso nella riunione di Dublino della scorsa settimana tra il segretario di Stato americano Hillary Clinton, il ministro degli Esteri Seghei Lavrov e l'inviato speciale dell'Onu Lakhdar Brahimi.
I russi non possono dimostrarsi troppo meravigliati della decisione di Washington: le dichiarazioni di Mosca in cui si affermava che Assad intendeva restare in sella già suonavano come una sentenza.

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