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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2012 alle ore 15:17.

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Park Geun-Hye (Afp)Park Geun-Hye (Afp)

Secondo molti analisti, decideranno l'esito delle elezioni i quarantenni, i primi a diventare adulti in un Paese democratico e ad aver contribuito da protagonisti alla diffusione dei prodotti nel loro Paese in un mondo in cui decine di milioni di persone guidano una Hyundai o una Kia, diteggiano su uno smartphone Samsung o guardano la tv su un apparecchio LG.

La candidata Park, che in passato non aveva nascosto la sua ammirazione per Margaret Thatcher, si è negli anni volenterosamente distanziata dai lati oscuri del regime del padre, ha chiesto scusa per gli abusi nei confronti degli oppositori e ha rappresentato la punta di lancia del riscatto femminile in un Paese ancora saldissimamente nelle mani dei politici maschi, un Paese in cui metà delle donne non lavora e in cui la presenza di deputate in Parlamento è pressoché testimoniale.

Fresca vincitrice delle elezioni politiche dell'aprile scorso, Park si è anche abilmente distanziata dal presidente uscente, il suo compagno di partito Lee Myung-bak, che è stato lambito da scandali di corruzione che hanno coinvolto il suo entourage e, da ex amministratore delegato della Hyundai Engineering and Construction, è considerato dall'opinione pubblica troppo vicino ai chaebol, giganteschi conglomerati industriali, che sono dei corpaccioni controllati da poche famiglie in cui la politica si intreccia inestricabilmente con l'economia.

I chaebol sono stati i mattoni con cui il padre di Park Geun-hye ha costruito lo sviluppo di un Paese che partiva da una condizione di severa povertà, ma hanno contribuito ad aggravare le disparità economiche nella Corea del Sud e a produrre consistenti differenze di ricchezza tra le varie regioni, differenze che si riflettono anche nel voto, se si considera che le zone sud-occidentali della penisola, assai più arretrate delle altre, sono da sempre un feudo del centrosinistra.

"Democratizzazione dell'economia", in ogni caso, è uno slogan comune sia alla campagna elettorale di Park sia a quella di Moon, visto il diffuso malcontento di gran parte della popolazione per un sistema economico ingessato dalla perpetuazione di un modello imperniato da decenni sullo strapotere dei chaebol. Non è questa l'unica somiglianza nei programmi dei due candidati alla presidenza. Entrambi sono cattolici, benché il cattolicesimo di Park sia più venato di buddismo per ascendenze familiari. Entrambi sono inclini a riallacciare il dialogo con la Corea del Nord, annacquando il rigore verso Pyongyang dell'attuale presidente Lee, rigore molto apprezzato da Washington e da Tokyo, ma assai meno popolare a Seul.

I rapporti con il vicino settentrionale isolazionista, in ogni caso, non influenzeranno la scelta del prossimo capo dello Stato sudcoreano. E il fatto che mercoledì scorso Pyongyang abbia voluto flettere i muscoli in mondovisione, rinnovando le proprie prodezze missilistiche (ufficialmente si è trattato del lancio di un satellite, ma per le cancellerie di tutto il mondo l'"oggetto" testato era un missile a lungo raggio), non ha inciso un granché sul dibattito preelettorale in corso a Seul.

Il convergere verso il centro dei due programmi presidenziali – accelerato, finché è stato in corsa, dalle parole d'ordine del terzo candidato Ahn, che puntava sul diffuso desiderio di dare un nuovo impulso a un sistema-Paese ad alto rischio di sclerotizzazione nella ripetizione di schemi che molti considerano consunti – non cancella la portata simbolica di una competizione tra la figlia di un autocrate e un suo coetaneo che della repressione dell'autocrate medesimo fu vittima da ragazzo. Da un lato, la candidata Park, spesso chiamata "la regina" dalla stampa coreana, è percepita come la rampolla di una sorta di Royal Family della Corea repubblicana, la cui dedizione al Paese passa attraverso l'assassinio di entrambi i genitori e il suo non essersi mai sposata; dall'altro, Moon, che da giovane fu arruolato nelle Forze speciali dell'esercito, ma ha svolto una lunga carriera come avvocato specializzato nel diritti umani ed è stato capo dello staff dell'ex presidente Roh Moo-hyun, è l'erede di dieci anni di presidenze di centrosinistra (1998-2008) e rappresenta la generazione che ha lottato per la democrazia.

A decidere la contesa sarà una Corea del Sud piuttosto nevrotica. Un Paese capace nel 2011 di una crescita del 3,6 per cento del Pil (per il 2012 le stime erano di un +2,4 per cento che probabilmente non sarà raggiunto); di contenere la disoccupazione sotto il 5 per cento (ma la competizione per trovare un lavoro stabile e a tempo pieno, e per conservarlo, è serratissima); di portarsi ai primi posti del mondo quanto a investimenti su Ricerca&Sviluppo e all'eccellenza nelle produzioni high-tech; di farsi conoscere per una cinematografia di grande qualità e una cucina che guadagna sempre più estimatori; di conquistarsi l'ultima copertina del settimanale francese Courrier International (che titola: "La vague coréenne", "L'onda coreana"). Ma che è un Paese ai primi posti anche nelle classifiche mondiali che registrano la scontentezza della popolazione per la propria vita e il tasso di suicidi.

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