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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2012 alle ore 19:29.

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Primavera araba e petrolio, è un legame sancito anche in questi giorni di grande turbolenza in Egitto. "Cari egiziani andate a votare per la costituzione - ha chiesto lo sceicco Qaradawi nella sua predica del venerdì alla vigilia del referendum - perché altrimenti rischiate di perdere 20 miliardi di dollari di investimenti del Qatar". Yusuf Qaradawi, in esilio a Doha dove Al Jazeera trasmette ogni settimana i suoi sermoni a un pubblico di 60 milioni di musulmani, è una sorta di grande vecchio dell'Islam politico, un'autorità indiscussa della sharia, la legge islamica. E adesso forse anche delle leggi economiche.

Cambiano i regimi, passano le stagioni, ma il mondo arabo e il Medio Oriente non possono fare a meno dell'oro nero e del gas le cui entrate rappresentano una dipendenza ineludibile. Anche per i movimenti islamici in Egitto, in Tunisia, in Asia centrale, in Africa, e con ogni probabilità nella Siria del dopo Assad. Non è un caso che tra i più generosi finanziatori della guerriglia siriana ci siano le monarchie del Golfo e la Libia, passata dal regime di Gheddafi a quello nuovo senza cambiare l'inveterata abitudine di sostenere i gruppi armati.

La dipendenza dal petrolio è un rischio, vuol dire comunque essere in mano ai mercati come avviene per le economie europee aggrappate all'andamento dello spread sul debito. E ora le nuove democrazie all'islamica, come suggerisce un libro di Lapo Pistelli appena edito da Feltrinelli, "Il nuovo sogno arabo", devono tenere conto, a differenza dei regimi autocratici, di una variabile in più: il tempo. L'orologio democratico dà appuntamento da un'elezione all'altra e misura impietosamente le promesse del prima con le realizzazioni del dopo, filtrandole con la lente delle aspettative popolari.

La produzione di oro nero si sta impennando in tutto il Medio Oriente. L'Iraq pompa 3,3 milioni di barili al giorno e il governo filo sciita di Baghdad, in collisione con il Kurdistan per lo sfruttamento di gas e petrolio, si prepara a superare il record storico (3,8 milioni) raggiunto oltre 30 anni fa, quando arrivò al potere Saddam Hussein. Per tenere alte le quotazioni l'Arabia Saudita è costretta diminuire la produzione sotto i 10 milioni di barili al giorno. Anche la Libia, oltre all'Iraq, è fase di boom: tra non molto toccherà 1,7 milioni di barili. Soltanto l'Iran è stato costretto dall'embargo europeo e americano sotto la soglia dei 3 milioni, uno dei livelli più bassi dagli anni 90. Ma in attesa delle presidenziali del giugno prossimo, se arrivasse a un accordo sul programma nucleare le sanzioni potrebbe essere alleggerite riportando Teheran a pieno regime. A questo si aggiunge l'"evento del millennio", il shale oil, il petrolio estratto dalla roccia che ha portato gli Stati Uniti a quasi 7 milioni di barili al giorno, soddisfando l'83% della domanda interna: il giacimento di Bakken nel North Dakota ha già superato l'output del maggiore pozzo del Kuwait.

L'economia mondiale rallenta, così i consumi energetici e le potenze petrolifere sono costrette a rifare i conti. Secondo il Centre for Global and Energy Studies di Londra, fondato dall'ex ministro del petrolio di Riad, lo sceicco Zaki Yamani, l'Arabia Saudita potrebbe trovarsi in crisi a finanziare i suoi piani infrastrutturali e sociali da 600 miliardi di dollari se il greggio scendesse sotto quota 90 dollari.

Come risposta alle proteste popolari del 2011, le monarchie del Golfo hanno aumentato del 20% la spesa pubblica: il Fondo monetario prevede che nel 2017 il loro deficit di bilancio sia destinato a sprofondare. Meno soldi quindi da investire nei nuovi regimi della primavera araba come l'Egitto, che ha appena rinviato l'accordo per un mega prestito con il Fondo. Forse entreranno in difficoltà, oltre ai Fratelli Musulmani, gli stessi coriacei salafiti che grazie ai finanziamenti delle fondazioni religiose del Golfo hanno conquistato un quarto dei consensi. "Fate i bravi se volete restare in sella", dice lo sceicco Qaradawi ai confratelli egiziani mentre i governi occidentali promettono aiuti ma tengono ancora stretti i cordoni della borsa.

Un altro sceicco, proprio Yamani, anni fa veniva citato per una celebre frase: "L'età della pietra non è finita per mancanza di pietre, quella del petrolio non termina perché non ci sarà più oro nero". Anche la primavera sulla sponda Sud non finisce senza i soldi del Golfo ma ne sarà fortemente condizionata: può essere un grave errore guardare al "risveglio arabo" solo in temini politici e non economici, avvertiva di recente Tariq Ramadan, lo studioso dell'Islam politico che, guarda caso, insegna a Doha ed è nipote di Hasan Al Banna, il fondatore di Fratelli Musulmani.

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