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Questo articolo è stato pubblicato il 10 gennaio 2013 alle ore 21:18.

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PALERMO - A Palermo è in corso una guerra quotidiana contro gli amministratori giudiziari dei beni tolti alla mafia. Una guerra che è combattuta ormai da mesi e che lascia presupporre un interesse diretto da parte delle cosche che vogliono a tutti i costi tornare a gestire i beni o vogliono impedire che sia lo Stato a farlo. Che le indicazioni possano essere queste, del resto, è emerso da più di una intercettazione e da più di un'inchiesta: in una conversazione è il boss Nino Rotolo, oggi in carcere,a dare queste indicazioni ai picciotti. Per i mafiosi è chiaro: o noi o nessuno. Si tratti di un'azienda che si occupa di manutenzione di impianti del gas o di una serie di rifornimenti di benzina (sono almeno 40 in città quelli sequestrati e molti fanno capo alla famiglia Graviano di Brancaccio) o di un porto turistico.

La denuncia circostanziata è contenuta in una relazione che i magistrati della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo guidata da Silvana Saguto hanno inviato al Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza affinché si intervenga. Una relazione in cui vengono enumerate tutte le intimidazioni fatte ai danni degli amministratori giudiziari cui i boss o i parenti dei boss l'hanno giurata: non li vogliono, specie se sono severi e fanno rispettare la legge. Fatti che, se letti da un'altra prospettiva, raccontano di una città ancora saldamente controllata dai clan che non si rassegnano e vorrebbero continuare a gestire. «Non c'è dubbio – spiega il magistrato Fabio Licata che da anni si occupa di misure di prevenzione patrimoniale – che vi sia l'interesse delle cosche. A gestire o a dimostrare che lo Stato non è capace di farlo». E le cosche spesso trovano alleati inaspettati: in qualche caso le banche, in altri grandi aziende controllate dallo Stato i cui manager non hanno avuto alcuna perplessità a lavorare con i mafiosi e che trovano poi mille cose da ridire quando si trovano di fronte gli amministratori giudiziari.

Passata attraverso una serie di innovazioni la legislazione antimafia in tema di sequestri e confische è stata ulteriormente innovata con la legge di stabilità per il 2013 che interviene anche pesantemente in parecchi settori e soprattutto innova la governance dell'Agenzia nazionale, recependo le proposte fatte da Confindustria per bocca del delegato nazionale alla Legalità Antonello Montante che aveva chiesto un maggior coinvolgimento di manager esperti nella gestione di beni e aziende tolte alle mafie: la legge prevede che del Consiglio direttivo facciano parte anche «due qualificati esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali designati, di concerto, dal ministro dell'Interno e dal ministro dell'Economia e delle finanze». Questa e le altre innovazioni normative hanno l'obiettivo di dare risposte in termini di efficienza nella gestione dei beni confiscati e di accelerazione dell'iter per la valorizzazione economica, ovvero per la vendita. L'Agenzia, oggi guidata dal prefetto Giuseppe Caruso, resta però vincolata a un organico di trenta persone cui si aggiungono gli eventuali distacchi (un centinaio) provenienti da altre amministrazioni dello Stato, soprattutto militari. «Poco – dicono gli addetti ai lavori – molto poco». Per gestire con efficacia tutti i beni nel paese, è una stima fatta da occhi esperti, servirebbero almeno un migliaio di persone esperte e «non militari».

Certo è che oggi, sul territorio, sono gli amministratori giudiziari a garantire una presenza manageriale con un coordinamento costante con i magistrati i quali conoscono meglio di ogni altro il contesto in cui si è formato e ha prosperato un'azienda mafiosa. Sono loro i primi a dire che è «meglio chiudere subito una buona fetta delle aziende sequestrate, perché non hanno mercato o non hanno le condizioni minime per continuare a stare in vita». Ma questo è l'aspetto meno importante, se vogliamo, di una questione più complessa: mentre si va avanti spediti nella direzione della dismissione di patrimoni i magistrati puntano il dito sugli interventi organizzativi e normativi degli ultimi anni: «Il cosiddetto codice antimafia e l'Agenzia hanno creato più problemi che altro» dice per esempio il giudice Fabio Licata: «L'Agenzia non dialoga con l'autorità giudiziaria, l'Albo degli amministratori che pure era previsto non è stato ancora istituito». Sicché dalle parole degli operatori emerge una cattiva organizzazione dello Stato che va a tentoni in un mondo in cui camminare a occhi chiusi, con distrazione o peggio malafede, può costare veramente caro a tutti: «Bisogna stare attenti quando si parla di queste cose – dice Andrea Aiello, uno dei più quotati amministratori giudiziari su piazza palermitana –. Su questo fronte è la legislazione in sé ad essere complessa e nel caso di gestione di aziende bisogna mettere in campo le migliori competenze».

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