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Questo articolo è stato pubblicato il 23 gennaio 2013 alle ore 10:42.

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David Cameron (Reuters)David Cameron (Reuters)

LONDRA – Dentro o fuori. David Cameron scandisce le parole annunciando l'ultima scommessa della Gran Bretagna in bilico, come mai prima d'ora, sul piano inclinato della storia «verso l'uscita dall'Unione». Il primo ministro britannico aggira la sorte che per giorni sembrava avere messo una maledizione sull'atteso discorso, ripetutamente rinviato, sui destini delle relazioni anglo-europee e, nel prendere la parola nel quartiere generale di Bloomberg nel centro di Londra, conferma le previsioni più severe.

Si impegna formalmente a portare il proprio Paese nel 2017 a un referendum «in or out» sull'adesione all'Ue e nell'annunciarlo traccia in cinque punti il profilo dell'Europa che vorrebbe. «E' ora che il popolo britannico – proclama – abbia l'opportunità di pronunciarsi, è ora di definire la questione europea nella vita politica del Paese… Non sono isolazionista ma voglio un miglior accordo per la Gran Bretagna, per il successo dell'Unione europea e per la prosperità delle generazioni future».

David Cameron rovescia quindi il tavolo e nel sottolineare «che il consenso democratico di adesione all'Unione nel Regno è ormai sottilissimo» apre una partita ad alto rischio che si regge su una visione eterodossa del ruolo e delle funzioni dell'Ue. Al cuore del progetto europeo per David Cameron deve esserci solo il mercato interno perché Londra ha un «approccio pragmatico e non emotivo verso l'Unione».

Pertanto al primo punto della sua agenda c'è la competitività dei Ventisette in un mondo che cambia sotto la pressione della globalizzazione. E questo significa completamento del single market, strutture comunitarie meno sclerotiche, meno burocrazia, meno spese. Al secondo punto un'Europa a più velocità con diversi livelli di integrazione perché questo «non significa smantellare l'Ue ma rafforzarla» nel rispetto delle diverse esigenze nazionali. Al terzo punto pone una dinamica dell'integrazione capace, qualora necessario, di ridare poteri alle nazioni non solo di delegarli a Bruxelles. Al quarto punto dell'Europa made in Britain c'è la risoluzione del deficit democratico che Londra, nelle parole del suo premier, risolve così: non esiste un demos europeo, i poteri vanno nuovamente concentrati nei parlamenti nazionali. Al quinto punto il premier sollecita un'esigenza molto personale, ovvero che l'assetto futuro sia equo e che tenga conto delle esigenze di chi siederà nel cerchio più lontano della struttura europea che verrà.

Lo stigma dell'euroscetticismo esplode con nettezza nella parole del capo del governo, nonostante David Cameron dica voler fare campagna per il «sì» una volta guadagnate le posizioni desiderate. In realtà il capo del governo inglese è spregiudicato abbastanza da lanciarsi in un azzardo che si basa su alcuni passaggi non affatto scontati. Prima di tutto il partito conservatore dovrà vincere le elezioni del 2015: solo con i Tory al governo infatti Londra andrà al voto perché né i LibDem di Nick Clegg, né i laburisti di Ed Miliband si sono espressi a favore di una consultazione popolare. In secondo luogo dovrà sperare che i partner vogliano davvero riaprire i Trattati per inserire i passaggi di più stretta cooperazione che si sono resi necessari per risolvere la crisi dell'euro.

In un negoziato globale Londra può sperare di ottenere esenzioni specifiche e protezioni particolari imponendo quello che Parigi e Berlino già considerano un ricatto. In altre parole Londra dirà – e Cameron lo ha lasciato intendere - o ci lasciate rimpatriare politiche specifiche – dall'immigrazione, al capitolo sociale – oppure non vi daremo l'ok per riformulare Trattati che impongono consenso unanime. La strategia prevede poi che l'esito del negoziato sia sottoposto al referendum con quel quesito radicale, quel dentro o fuori destinato a riscrivere la storia.
La scommessa britannica è radicata, evidentemente, nella certezza che il "ricatto" possa andare a buon fine ovvero che i partner vogliano o debbano davvero riaprire i Trattati. Se così non dovesse essere – come oggi appare in realtà molto probabile – Londra non avrebbe alcun potere per imporre ai partner una membership alla carta incentrata sulle dinamiche commerciali del mercato unico.

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