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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2013 alle ore 06:38.

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Le imprese la chiedono, il premier Monti e il ministro Passera parlano di tempi ormai maturi, i modelli esteri di riferimento non mancano. L'export bank di bandiera potrebbe essere più vicina di quanto non si pensi.
Nel Piano nazionale del l'export 2013-2015 presentato a gennaio si parla di un polo di finanza per l'internazionalizzazione all'interno della Cassa depositi e prestiti, dove sono state concentrate – per acquisizione – le competenze di Sace e di Simest. Gli attori protagonisti dunque ci sono. Il fatto è che c'è già anche lo schema di funzionamento: si chiama "Export banca" – nomen omen – ed è una formula grazie alla quale la Cassa ci mette il supporto finanziario, la Sace le garanzie, e le imprese esportatrici italiane possono di fatto usufruire di misure tipiche dell'export finance.
Formalmente, Export banca è una convenzione, rinnovata ogni anno – l'ultimo rinnovo è dell'aprile del 2012 – tra la Cassa depositi e prestiti, la Sace, la Simest e l'Abi. La sua attività precede di molto l'acquisizione di Sace e Simest da parte della Cassa. Risale infatti al 2010, lo stesso anno in cui il presidente Obama puntava sul rilancio dell'export, contribuendo così a invertire il trend al ribasso dell'economia a stelle e strisce. Allora al ministero dell'Economia c'era Tremonti, e la stretta del credito bancario alle imprese cominciava a farsi difficile, complici i tassi troppo alti per accedere ai prestiti. La convenzione invece creava un circolo virtuoso: le banche commerciali riuscivano a erogare il finanziamento grazie alla provvista di capitale a tasso agevolato garantito loro dalla Cdp e assicurato da Sace. E là dove le banche non arrivavano, era la Cassa stessa a fornire il capitale direttamente al l'impresa.
Dopo le farraginosità del primo anno, la "formula" ha cominciato a funzionare meglio, tanto che (si legge nella relazione sui dati preliminari del 2012 della Cassa depositi e prestiti) l'anno scorso la dote della Cdp a sostegno della funzione di export finance è passata da 2 a 4 miliardi euro. Bruscoli, rispetto ai 61 miliardi messi in campo nel 2011 dalla Ipex, l'export bank di Berlino. Spiccioli anche se li si paragona a un contesto emergente, ma scoppiettante, come quello sudcoreano, la cui banca per le esportazioni quest'anno è pronta a stanziare fondi per 68 miliardi di dollari. Ma la direzione è tracciata.
L'acquisizione l'anno scorso di Sace e del 76% di Simest da parte di Cassa depositi e prestiti non ha fatto che oliare ulteriormente il meccanismo. Ora, dicono i ben informati, si tratta di realizzare l'integrazione funzionale, di armonizzare l'offerta. Per dare vita appunto a una Export bank vera e propria.

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