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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2013 alle ore 12:07.
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È tornato il rischio Italia? Le tensioni cui stiamo assistendo sul fronte dello spread, balzato fin sopra i 290 punti base, e comunque al di sopra dell'obiettivo dei 287 punti evocato a più riprese dal presidente del Consiglio, Mario Monti, leader della lista civica che prende il suo nome, fotografano una situazione di incertezza solo parzialmente sospesa alcuni giorni fa, quando sembrava possibile una discesa stabile al di sotto dei 250 punti base.
Si tende a minimizzare il dato, ma di certo la preoccupazione non potrà che crescere nell'ultima tornata di campagna elettorale. Questa volta la variabile politica è decisiva e si avverte chiaro nel parterre degli investitori e dei mercati il timore che dal risultato elettorale non emergano un governo e una maggioranza in grado di assicurare stabilità al Paese e dunque di onorare gli impegni assunti in sede europea. In questa convulsa fase del confronto elettorale si sta assistendo di fatto a una ricorsa alle promesse di tagli fiscali, anche nell'immediato, che appaiono non solo ardue da mantenere, ma potenzialmente in grado di far deviare il Paese dal percorso di risanamento dei conti pubblici.
Un tempo lo si definiva e quantificava come "il ciclo elettorale di spesa", un costo pressochè obbligato da sostenere in un paese che per decenni ha visto gonfiarsi la spesa pubblica, e con essa il debito, finanziata in deficit. Ora c'è l'Europa, c'è il Fiscal Compact e dunque si tenta di aggirare l'ostacolo brandendo l'arma dei tagli fiscali, con coperture tutte da verificare, e dunque anch'essi potenzialmente distruttivi degli equilibri di bilancio.
Analizzata da questo punto di vista, la questione dunque non è più e non tanto se riusciremo a rispettare il target del pareggio di bilancio, poiché la dizione "in termini strutturali" ci consentirebbe sulla carta di non coprire con una nuova manovra il maggiore deficit provocato da una più marcata flessione congiunturale (-1% quest'anno contro -0,2% previsto lo scorso settembre). Il problema è come conciliare una disciplina di bilancio che comunque ci obbliga per effetto dell'enorme debito pubblico ad avanzi primari consistenti (tra il 4 e il 5% del Pil) con piani di riduzione delle tasse che, in assenza di contestuali e credibili operazioni sul fronte della spesa corrente primaria, comporterebbero l'inevitabile aumento del deficit senza peraltro riuscire a stimolare la domanda interna, perché cadrebbero in una fase di perdurante recessione. Per non parlare poi dell'ipotesi sciagurata ma tristemente realistica che si ricorra all'ennesimo condono fiscale.
Ed ecco che qui torna in ballo il rischio-Italia. Nei giorni in cui lo spread sembrava avviato a raggiungere i 200 punti base, si è ipotizzato un "premio", in termini di minor spesa per interessi, di 10 miliardi in due anni. La campagna elettorale in corso rischia di vanificare quel prezioso, potenziale "dividendo". Senza un'inversione di tendenza su questa fondamentale componente della nostra spesa pubblica, che drena risorse alla collettività cifrabili tra gli 80 e i 90 miliardi l'anno, i margini per robusti piani di riduzione del prelievo fiscale restano ridottissimi.
L'unica strada sarebbe quella di destinare l'intero maggior gettito che si ricava dalla lotta all'evasione al taglio delle tasse (12-13 miliardi l'anno). Non vi è da farsi grandi illusioni: per finanziare proposte di riduzione del prelievo come quelle annunciate finora, dall'abolizione dell'Imu sulla prima casa, con contestuale restituzione di quanto versato nel 2012, (che vale 8,6 miliardi), alla graduale soppressione dell'Irap (35 miliardi), per finire con gli interventi sull'Irpef e sull'Iva (occorrono 4 miliardi per evitare l'aumento di un punto dal prossimo 1° luglio), occorre una maxi-operazione di riduzione della spesa corrente da realizzare in tempi medi con costi altissimi in termini di consenso, e potenzialmente dirompenti per gli equilibri politici delle diverse coalizioni in campo. E allora sarebbe il caso che si dicesse con chiarezza che per l'anno in corso ben poco si potrà fare. Al massimo, oltre a finanziare alcune spese inderogabili, si potrà provare a evitare l'aumento dell'Iva e forse dal 2014, quando auspicabilmente si comincerà a vedere un po' di ripresa, ipotizzare un percorso graduale di riduzione delle tasse.
È fondamentale agire su questo fronte, ma sarebbe deleterio farlo a dispetto degli obblighi europei e del giudizio dei mercati. Quel che risparmieremmo in termini di alleggerimento del prelievo, dovremo restituirlo sotto forma di più alti tassi di interesse e dunque di maggiori oneri sul debito pubblico.
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