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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2013 alle ore 12:52.
Un saluto senza enfasi e spettacolo, paradossalmente senza straordinarietà. Nell'ultimo Angelus del suo pontificato Benedetto XVI rimarca la cifra anche esteriore del suo regno, e lancia un messaggio alla Chiesa – e in particolare ai cardinali che tra pochi giorni dovranno eleggere il suo successore – di ricerca della vera essenza della fede.
Anzitutto quando dice che è chiamato a "salire sul monte" e che continuerà a "servire la Chiesa" rilancia con forza l'impostazione monastica della sua pastorale, benedettina. Il messaggio al mondo – soprattutto ai porporati, verrebbe da ipotizzare in questi giorni di lotte interne, certamente non solo ipotizzate sulla stampa – è che una carica di vertice si può lasciare, come nei conventi quando il superiore finisce il suo mandato torna a fare il monaco. Eppoi il richiamo al fatto che la sua rinuncia non è stata di fatto una sua scelta, ma una chiamata: non quindi solo una questione di forze e di salute, o di altri motivi legati alle questioni di Curia (di cui si occuperà comunque domani ricevendo i cardinali "inquirenti" su Vatileaks) ma una ragione di fede, e in questo un messaggio molto ratzingeriano.
Eppoi un'indicazione netta per il futuro (e quindi con ogni probabilità per il prossimo Papa) che è stata sempre presente in questi quasi otto anni, ma che ribadita oggi assume un significato particolare: "Il primato della preghiera senza la quale l'impegno dell'apostolato e della carità si riduce ad attivismo". Insomma, la Chiesa non è governo e politica.
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