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Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2013 alle ore 12:17.

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Silvio Berlusconi aspetta che il tavolo venga apparecchiato. Il Cavaliere ha già smesso i toni della campagna elettorale. Il pareggio elettorale per lui è il risultato migliore possibile. Forse persino meglio della vittoria. Almeno di una vittoria dimezzata come quella che è toccata al suo avversario. Per questo stamane, nella sua prima dichiarazione postelettorale, Berlusconi non è tornato alla carica sul riconteggio dei voti alla Camera che a tarda notte, a scrutinio ancora in via di completamento, aveva paventato il suo fido segretario Angelino Alfano.

La presidenza del Senato e il Qurinale
L'ex premier non ha bisogno di rivendicare la vittoria a Montecitorio perchè - al contrario di quanto avvenne nel 2006 - il suo avversario, il Pd, è senza maggioranza al Senato. Quindi per Bersani è indispensabile trovare un accordo. E i numeri per governare può offrirglieli solo lui, ovvero il gruppo del Pdl, oppure Grillo. Il primo passo - come ha ricordato subito Fabrizio Cicchitto, capogruppo uscente del Pdl alla Camera - è la scelta del presidente del Senato, il ramo del Parlamento in cui nessuno ha la maggioranza. È un ruolo chiave che può diventare elemento determinante per la trattativa sul futuro presidente del Consiglio nonchè sul successore di Giorgio Napolitano (a partire dal 15 aprile il Parlamento è chiamato a riunirsi in seduta comune per l'elezione del Capo dello Stato).

Gli scenari possibili
La prima mossa spetta a Bersani. Il paradosso di queste elezioni è anche questo: il principale sconfitto, ossia il segretario del Pd e candidato premier del centrosinistra, adesso deve caricarsi anche l'onere di fare una proposta di governo e ha solo tre possibilità: rinunciare, accordarsi con Grillo oppure larghe intese con Berlusconi. L'ipotesi più improbabile è l'accordo con Grillo, nonostante alcuni tentativi di abboccamento lanciati qua e là subito dopo il voto da alcuni esponenti del Pd e da Vendola. Il leader del M5stelle non ha alcuna intenzione di favorire la sopravvivenza di Bersani e del Pd (così come quella di Berlusconi), per cui se ne starà alla larga, ripetendo e facendo ripetere ai suoi che voteranno solo le propeste ritenute meritevoli. Ma qui non si tratta di valutare un singolo disegno o decreto legge. Qui si tratta di dare o meno la fiducia a un governo.

La rinuncia di Bersani e le larghe intese
Restano le altre due possibilità: la la rinuncia di Bersani o la grande coalizione, sia pure ribattezzata come governo per le riforme. Oppure tutte e due le ipotesi. E questo è un ulteriore scenario, ovvero il ritiro del segretario del Pd, magari dopo un abortito tentativo di ottnere la fiducia per il governo da lui presieduto, e il conseguente passaggio di mano a un terzo per favorire l'intesa tra i due blocchi. Qualcosa che può ricordare quanto avvenne nel novembre 2011 quando Berlusconi fu costretto a cedere lo scettro a Monti. Solo che il Professore è bruciato, così come eventuali altri premier «tecnici», termine quest'ultimo ormai bandito sia nel centrodestra che nel centrosinistra. Dovrà essere un governo con una guida politica che riesca a ottenere la fuducia di entrambe le parti. Se non si troverà non resterà che un esecutivo ponte, per tornare alle urne. Mercati finanziari permettendo.

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