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Questo articolo è stato pubblicato il 07 marzo 2013 alle ore 13:07.

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I mafiosi trattarono con i rappresentanti delle istituzioni. L'ipotesi della Procura della Repubblica di Palermo è stata ritenuta convincente dal giudice per l'udienza preliminare Piergiorgio Morosini, che ha disposto il rinvio a giudizio dell'ex ministro Nicola Mancino, del senatore Marcello Dell'Utri, dei generali dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subrani, e dell'ex colonnello Giuseppe De Donno. Con loro, alla sbarra degli imputati, i mafiosi Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca (collaboratore di giustizia) e Massimo Ciancimino - il figlio dell'ex sindaco di Palermo - che nel 2008 rivelò la presunta trattativa.

Secondo i pm Nino Di Matteo, Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, «gli imputati hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato Italiano e in particolare del governo della Repubblica». Nei confronti dell'ex ministro Mancino è ipotizzata la falsa testimonianza, mentre per Ciancimino la calunnia verso l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Il processo partirà il 27 maggio prossimo.

L'inchiesta, durata circa quattro anni, ha visto il coinvolgimento – non solo di natura penale – di numerosi vertici delle istituzioni. L'ipotesi del pool di magistrati – fino all'ottobre scorso coordinato dall'ex aggiunto Antonio Ingroia – è che tra il 1992-93 ci sarebbe stata una trattativa fra Stato e capimafia per frenare la stagione delle stragi. Dalle indagini sarebbe emerso un ruolo cardine dell'ex ministro Calogero Mannino (sarà giudicato col rito abbreviato), il quale avrebbe avviato la trattativa con Cosa nostra già nei primi mesi del 1992, per il timore – è la ricostruzione dell'accusa – di essere vittima di un attentato. Di questo ne avrebbe parlato con i vertici dei carabinieri del Reparto operativo speciale (Ros), il generale De Donno e l'ex colonnello Mori, che avrebbero avviato una trattativa con la mafia tramite l'ex sindaco Vito Ciancimino.

Sarebbe stato l'ex primo cittadino di Palermo ad essere l'anello tra gli interessi dello Stato e quelli di Riina. L'indiscusso boss di Corleone avrebbe inviato un "papello", sul quale sarebbero state inserite le richieste di Cosa nostra per bloccare la stagione dei massacri, come quelli dei pubblici ministeri Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Di questo sospetto accordo ne sarebbe stato a conoscenza anche Mancino, che sarebbe stato informato dall'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, a sua volta avvertito dell'iniziativa del Ros di dialogare con la mafia.

Una ricostruzione che Mancino nega, ed è per questo che è accusato del reato di falsa testimonianza. Infine, tra i referenti politici di Cosa nostra ci sarebbe stato anche l'attuale senatore del Pdl, Marcello Dell'Utri. Secondo i pm, infatti, dal 1994 «i capimafia Bagarella e Brusca prospettarono al capo del governo in carica, Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano (deceduto) e di Dell'Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti all'associazione Cosa nostra (tra l'altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l'esito di importanti vicende processuali e il trattamento penitenziario). Ponendo l'ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle istituzioni».

Infine, l'inchiesta è stata oggetto di numerose polemiche, come quelle che hanno riguardato le quattro intercettazioni tra Mancino e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Si tratta di telefonate che, come disposto dalla corte Costituzionale (a seguito di giudizio per conflitto di attribuzioni), saranno distrutte.

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