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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2013 alle ore 17:11.

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I due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sotto processo per la morte di due pescatori del Kerala in India dal febbraio 2012, rimarranno in Italia dove erano rientrati per un secondo permesso - il primo concesso per Natale - riconsciuto dalle autorità indiane per votare alle elezioni politiche. Lo annuncia a sorpresa il ministro degli Esteri Giulio Terzi che in questo modo rompe un lungo tira e molla diplomatico. Con quale pezza d'appoggio?

«L'Italia ha informato il Governo indiano - si legge in una nota della Farnesina - che, stante la formale instaurazione di una controversia internazionale tra i due Stati, i fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non faranno rientro in India alla scadenza del permesso loro concesso».

La prima replica, ufficiosa, ha lasciato trapelare l'irritazione di New Delhi: «I due marò italiani devono essere processati in India secondo le leggi indiane», ha commentato a caldo una fonte diplomatica indiana all'Onu. Poi una presa di posizione ufficiale: il ministro degli Esteri indiano Salman Kurshid ha dichiarato che «non sarebbe bene reagire ora» alla notizia che i marò resteranno in Italia.

«Abbiamo appreso la notizia dalle agenzie di stampa e dai mille messaggi di calore ricevuti. Non avevamo dubbi, anzi avevamo prove dirette dell'impegno che lo Stato ha profuso in questi mesi nei nostri confronti». Girone e La Torre si sono detti «felici soprattutto perché possiamo così tornare al reparto. Siamo fucilieri di Marina. Vogliamo tornare a fare il nostro mestiere».

È stato l'ambasciatore italiano a Nuova Delhi, Daniele Mancini, a comunicare alle autorità indiane la decisione italiana, assunta d'intesa - si legge nel comunicato - con i ministeri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la Presidenza del Consiglio dei Ministri. «L'Italia ha ribadito formalmente al governo indiano, con la nota verbale consegnata oggi dall'Ambasciatore Mancini, la propria disponibilità di giungere ad un accordo per una soluzione della controversia, anche attraverso un arbitrato internazionale o una risoluzione giudiziaria» conclude la nota.

Con un notevole ritardo sui tempi previsti, e dopo una plateale reprimenda da parte della Corte Suprema, il governo indiano aveva avviato a New Delhi le procedure per la costituzione di un tribunale speciale chiamato ad esaminare la questione della competenza giurisdizionale (indiana o italiana) sull'incidente - avvio che, di fatto, ha giustificato dal punto di vista formale la decisione della Farnesina.

«È l'unica soluzione possibile, in linea con quello che il diritto internazionale prescrive, anzi si sarebbe dovuto adottarla da tempo», ha commentato Angela Del Vecchio, docente di diritto internazionale all'Università Luiss di Roma. «Siamo davanti a un caso di classica controversia internazionale tra due Stati che che per uno stesso fatto attestano la propria competenza a giudicare. Le controversie internazionali non possono essere risolte dagli organi giurisdizionali interni, peraltro di una delle parti, ma si devono affidare ad arbitri internazionali o a giudici internazionali».

Due sono a questo punto le strade percorribili. «Se i due Stati mostrano buona volontà potrebbero arrivare a un compromesso arbitrale, un vero e proprio trattato che preveda di fare giudicare la Corte di giustizia internazionale dell'Aja. Se questo non accade, come è probabile, perché l'India continua a sostenere di essere competente - spiega l'esperta - la soluzione è un Arbitrato obbligatorio previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che si avvia su richiesta dello Stato che si ritenga leso e che non ha bisogno del consenso dell'altra parte».

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