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Questo articolo è stato pubblicato il 14 marzo 2013 alle ore 12:28.

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(Ansa)(Ansa)

Quell'essere figlio di un piemontese emigrato in Argentina Papa Francesco lo avverte in maniera particolare. Jorge Mario Bergoglio non è solo, come ha ricordato il presidente Usa Obama, il primo Papa delle Americhe. È anche, e soprattutto, un esponente della seconda generazione di emigrati italiani in quel lontano Paese («vengo dalla fine del mondo», sono state le sue parole), che oggi ripercorre al contrario il cammino compiuto tanti anni fa - non si sa esattamente in che anno - da suo padre. E ritorna in Italia, a Roma, nelle vesti del successore di Pietro al soglio pontificio.

Francesco nato a Buenos Aires (ma i genitori erano piemontesi)
Dietro Bergoglio c'è dunque un capitolo della storia contemporanea, quello scritto da molti italiani che, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, hanno cercato fortuna in America latina: Argentina, certo, ma anche Brasile, Uruguay. Senza poi dimenticare gli Stati Uniti. Gesuita, il Pontefice è nato a Buenos Aires nel 1936. Il padre Mario, professione ferroviere, era un piemontese di Portacomaro, in provincia di Asti, emigrato a vent'anni in Argentina. La madre, Regina Sivori, era una casalinga. Bardoglio ricorda qualche espressione del dialetto piemontese. Tra queste, alcune parole del "Rassa nostrana", il canto dei «Piemunteis ch'a travajo fora d'Italia» per fuggire dalla miseria, nella speranza di un futuro migliore. Nel 1895, tanto per rendere l'idea della grandezza del fenomeno, su 663.864 abitanti di Buenos Aires ben 181.361 erano italiani, concentrati soprattutto nel quartiere di Boca. Erano italiani l'80% dei commercianti e il 70% degli impiegati.

Gli agricoltori italiani e il trucco della talea della vite nella patata
Ma chi erano gli italiani che hanno cercato fortuna in Argentina? «A quell'epoca si emigrava soprattutto dal Nord d'Italia - racconta Flavia Cristaldi, che insegna geografia delle migrazioni all'università La Sapienza -: veneti, piemontesi, liguri. Dal Sud emigravano in misura minore, diciamo che il sorpasso da parte del Meridione è avvenuto dopo la Prima guerra mondiale, o anche successivamente». La meta prediletta «era soprattutto l'Argentina, in linea di massima più del Brasile». E il Piemonte, da cui proveniva il padre di Francesco, era in prima fila: «Ancora oggi - ricorda Cristaldi - questa regione ha la maggior parte di emigrati in Argentina: il legame è molto forte». Quale mestiere facevano gli italiani che andavano in quei Paesi così lontani? «Esperti nella coltivazione della vite, venivano impiegati in questo tipo di attività. Si portavano le talee di vite per coltivare in quei territori le tipologie che già conoscevano. Alcuni - racconta ancora la docente della Sapienza - facevano un buco nella patata, inserivano la talea, la mettevano dentro un baule (al buio) e poi se la partavano dall'altra parte dell'Oceano. Un po' - osserva ancora Cristaldi - come il nuovo Papa, che - ho letto - nella sua ultima visita in Piemonte si è portato un sacchettino di terra». Ad aiutare le cose, il fatto che «quando in Italia è inverno, in Argentina è estate: i nostri agricoltori partivano, andavano e mietere il grano e tornavano: è stata la cosiddetta "emigrazione a rondinella"». Inoltre, a differenza di altri casi di emigrazione, quella italiana «non venne vista come una minaccia: gli davano addirittura delle terre gratuite. Certo - aggiunge l'esperta di geografia delle migrazioni - all'inizio fu dura, molti non trovarono quello che si era prospettato».

Lo studioso dell'America Latina: quell'idea di aprire all'immigrazione
L'arrivo in massa degli italiani nasce anche da un cambiamento di mentalità da parte di alcune popolazioni dell'America Latina. Josè Dante Liano insegna lingua e letterature Ispano-americane presso l'università Cattolica di Milano. Ha redatto un dizionario biografico degli italiani in Centro America. «Verso la meta dell'800 - racconta -, un pensatore e scrittore cileno, José Victorino Lastarria, ha spiegato che l'arretratezza dell'America Latina era dovuta alla colonizzazione spagnola. Lastarria avanzava la proposta di aprire le porte dell'America Latina agli immigrati del Nord Europa e del mondo anglosassone. L'intellettuale e presidente Domingo Faustino Sarmiento Albarracín abbracciò questa tesi, ed emanò delle leggi che favorivano in modo considerevole l'afflusso di immigrati: siamo intorno al 1830. Erano previste delle agevolazioni - ricorda ancora Dante Liano -, tra cui l'esenzione dal pagamento delle tasse o il riconoscimento della cittadinanza».

Più che anglosassoni, arrivano spagnoli e italiani
Le cose, però, non andarono secondo i piani: «Il problema - afferma Dante Liano - è che di nuovo si presentarono spagnoli e italiani, più che persone dell'Europa del Nord. L'immigrazione di italiani in Argentina si sviluppò dal 1850 al 1910: e cambiò il volto del Paese, che da ispanico divenne multiculturale». I tempi furono stretti: «Gli argentini - spiega il docente della Cattolica - hanno cercato di mettere ordine: hanno deciso che questi immigrati dovevano integrarsi». Lo strumento per raggiungere questo obiettivo fu la scuola, l'istruzione, la lingua. Gli immigrati italiani giunti in Argentina, infatti, appartenevano in gran parte a fasce umili, molti non parlavano l'italiano ma il dialetto. Lo spagnolo rappresentò dunque non solo una lingua, ma un vero e prorpio strumento di integrazione: «Dovevano diventare ispano americani - sottolinea Dante Liano -. È bastata una generazione per completare l'opera: già la seconda, i figli degli emigrati era pienamente integrata. All'inizio gli italiani facevano lavori umili, a poco a poco hanno migliorato la loro situazione, cominciando a costituire il ceto borghese». Oggi un loro esponente è il capo della Chiesa cattolica. «Gent ch'a mercanda nen temp e südur: - rassa nostrana libera e testarda - tüt el mund a cunoss ch'i ch'a sun lur».

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