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Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2013 alle ore 08:18.

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Noi volevamo gli investimenti al di fuori del patto di stabilità e il ministro Enzo Moavero si è spinto a dire che stavamo ottenendo, nelle conclusioni, l'esplicito assenso alla "deviazione" necessaria a tal fine. No, quell'assenso non è arrivato, ma - è questo il punto - anziché recriminare e attendere senza far nulla che esso arrivi in una prossima riunione del Consiglio, vediamo se ci sono dei passi che noi possiamo fare tra i paletti segnati dalle parole che in questa riunione il Consiglio ha usato.
Non c'è infatti quanto il nostro Ministro sperava, ma c'è al punto 3 "la necessità di un risanamento di bilancio differenziato e favorevole alla crescita, ricordando le possibilità offerte dalle norme di bilancio vigenti del patto di stabilità". Mentre, al punto 4, "il Consiglio europeo ricorda che, nel pieno rispetto del patto di stabilità e crescita, le possibilità offerte dal quadro di bilancio esistente dell'Ue per equilibrare la necessità di investimenti pubblici produttivi con gli obiettivi della disciplina di bilancio potranno essere sfruttate nel braccio preventivo del patto stesso".
Sono affermazioni criptiche, difficili da capire per i non addetti ai lavori. Ma chi conosce il latino di Bruxelles non può non accorgersi che in esse c'è di più di un generico favor per gli investimenti pubblici e per le altre misure, anch'esse menzionate, che mirano "a breve termine a promuovere la crescita e sostenere la creazione di posti di lavoro". C'è quel favor, ma c'è anche l'indicazione della strada per realizzarle con il consenso europeo. Mi permetto di ricordare a chi non lo ha in mente che "il braccio preventivo" del patto di stabilità è la procedura stabilita di recente, secondo la quale, per prevenire i disavanzi eccessivi, gli Stati membri devono presentare entro ogni aprile i loro "programmi di stabilità e di convergenza" e quindi avere su di essi l'assenso della Commissione prima di dar loro corso sul piano interno.
È in quei programmi, perciò, che ciascuno indica ciò che ritiene necessario per conseguire sia gli obiettivi di finanza pubblica, sia il rafforzamento dell'economia e quant'altro concorre alla stabilità futura. Ma se è così, nel passaggio delle conclusioni del Consiglio che ho prima trascritto non si può non leggere un invito quasi trasparente di indicarli nei programmi di aprile le misure a breve termine e gli investimenti pubblici ritenuti essenziali, di discuterli con la Commissione e, con l'assenso di questa, di ottenere la luce verde.
Si noti, fra l'altro, che questo risolve anche una questione di cui si è lungo discusso e cioè quella della diffidenza europea per gli investimenti "in deroga", motivata dal rischio che gli Stati mascherino da investimenti spese che non sono tali. Qui gli investimenti entrano in una procedura in cui a decidere quelli ammissibili è naturalmente la Commissione. E - si noti - essa può ammetterli non in deroga, ma sfruttando i margini di flessibilità, che la stessa Angela Merkel ha riconosciuto offerti dal patto di stabilità, specie - ha detto - a favore di Paesi come l'Italia con indebitamento annuo sotto il 3%.
L'Italia può dunque oggi mettere nero su bianco (e forse subito dopo in parte anticipare) sia gli investimenti, sia i pagamenti alle imprese e lo può fare nonostante la difficile fase politica che sta attraversando. Fabrizio Forquet ha giustamente lamentato ieri su queste colonne la distanza che si legge tra il funambolico avvio della legislatura e le condizioni del Paese. Ma è anche vero ciò che notava giovedì il New York Times: un governo c'è, le aste dei nostri titoli continuano ad andar bene e non c'è ragione, per ora, di temere collassi.
Anzi, dobbiamo essere grati a Mario Monti per la decisione di rimanere sino all'ultimo al suo posto. Di lì, può essere proprio lui a iniziare il discreto negoziato con la Commissione sul programma di stabilità italiano di aprile. E magari a cominciare a raccogliere così - come merita - i frutti del suo lavoro.
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