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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2013 alle ore 15:33.

Iraq dieci anni dopo. Lo spettro di Saddam Hussein è ormai un ricordo. I marines sono andati via. Eppure il Paese è ancora ostaggio di tensioni confessionali (come l'attuale rivolta sunnita) e paralizzato sul fronte politico.
Nel settore energetico le cose vanno meglio. Lo scorso ottobre la produzione di greggio ha toccato un picco di 3,4 mbg. Il massimo da almeno 34 anni. D'altronde la dote che Baghdad si porta dietro è invidiabile: 143 miliardi di barili di greggio di riserve provate, le terze al mondo (se si escludono le sabbie bituminose del Venezuela e del Canada). Più almeno altri 100 miliardi di barili non ancora certificati, ma molto probabili, un potenziale che lo mette quasi alla pari dell'Arabia Saudita e che ha spinto Baghdad a obiettivi ambiziosi: arrivare a 4-5 mbg entro pochi anni. E, se fosse necessario, anche a 8-10 milioni entro il 2020.
«L'Iraq sarà senza dubbio uno dei maggiori player nello scacchiere energetico del futuro – spiega al Sole 24 Ore Roudi Baroudi, Ceo della Energy & Environment Holding di Doha -. Ha grandi giacimenti anche di gas. Se partiranno gli opportuni investimenti infrastrutturali e tecnologici, il Paese può raggiungere 4-5 mbg in cinque, anche in tre anni nel migliore scenario».
Ma le infrastrutture, finora, non sono all'altezza degli obiettivi. Non solo. I termini contrattuali offerti da Baghdad alle major straniere sono motivo di grande scontento. Si tratta di contratti tecnici di servizio (Tst), poco remunerativi, che pagano in barili di greggio la compagnia straniera solo per il lavoro svolto, senza quote sulla produzione.
«Questi contratti Tst – spiega al Sole 24 Ore una fonte di alto livello dell'industria petrolifera occidentale - non sono remunerativi: il profitto maturato per ogni barile prodotto era di appena 2 dollari a fronte di un prezzo del barile di 100».
Su tutto pesa una burocrazia onnipresente, che rallenta ogni processo, come lamentato dall'ad di Eni Paolo Scaroni: «Tre le ragioni per cui sono un po' perplesso. C'è una burocrazia che ci impone 17 livelli autorizzativi, francamente troppi anche per chi è abituato alle difficoltà». Eni è presente in Iraq nel giacimenti di Zubair (investimento fino a 18 miliardi di cui 4-5 già spesi).
L'Iraq è dunque importante ma difficile. «Buona parte della nuova offerta di greggio che servirà nei prossimi anni arriverà dall'Iraq – spiega Leo Drollas, direttore del Cges di Londra –. Mi sembra però che Exxon abbia portato avanti un gioco che gli è sfuggito di mano. Forse per ottenere miglioramenti contrattuali. Credo che comunque arriveranno a un accordo, conviene a entrambi».
Corre voce, infatti, che Exxon, dopo aver annunciato di voler vendere la sua quota di West Qurna a fine 2012 , ci stia ripensando e possa spuntare miglioramenti contrattuali con Baghdad.
Certo, non otterrà i Product sharing agreements offerti dal Kurdistan, contratti più vantaggiosi che riconoscono alle major una quota sulla produzione.
Ma i potenziali clienti per il greggio di Baghdad non mancano. Appena circolata voce della possibile cessione di West Qurna si è fatta avanti la cinese China National petroleum Corp. La Cnpc è stata la prima compagnia straniera ad attivare un impianto di produzione (Halfaya) in Iraq dopo la caduta di Saddam, con 15 mesi di anticipo. Nella storica gara del 2009, si era aggiudicata anche i pozzi di Al-Ahdab, e una quota di Rumaila, il maggior giacimento iracheno con 17 miliardi di barili di riserve (un contratto da 15 miliardi di dollari insieme alla Bp). Pur non avendo inviato alcun militare, in Iraq i cinesi sembrano i veri vincitori. In Kurdistan la partita è un'altra.
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