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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2013 alle ore 11:50.

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Il leader storico del Pkk Abdullah Ocalan (Olycom)Il leader storico del Pkk Abdullah Ocalan (Olycom)

Erdogan finora ha escluso una possibile amnistia generale e una liberazione di Ocalan, per non andare allo scontro frontale con lo schieramento nazionalista. Nella popolazione turca Ocalan rimane il nemico pubblico numero uno, l'uomo più destestato dall'opinione pubblica, ritenuto responsabile di centinaia attentati. Per capire come si è radicato questo clima di odio e contrapposizione insanabile dobbiamo ricordarci cosa accadde nel '98 tra Italia e Turchia. Quell'anno i rapporti fra Siria e Turchia, che accusava Damasco di appoggiare la guerriglia del Pkk, si fecero tesi e i due stati si trovarono sull'orlo di un conflitto armato, quasi come oggi ma per ben altri motivi. Le autorità siriane scelsero di non consegnare Ocalan ma gli intimarono di lasciare subito il paese. Per il guerrigliero fu l'inizio di una lunga odissea

Da Mosca giunse a Roma il 12 novembre 1998 sperando di ottenere asilo politico. Ma la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane spinse il governo D'Alema a ripensarci. Italia e Turchia arrivarono sull'orlo della rottura delle relazioni diplomatiche. Chi scrive si trovava in quei giorni ad Ankara, teatro di manifestazioni anit-italiane, e fu contattato dal presidente della Confindustria turca per organizzare un incontro riservato delle autorità con il ministro del Commercio Piero Fassino, nel tentativo di ricomporre la questione.

Il governo italiano non poteva estradare Ocalan in Turchia, paese in cui era ancora in vigore la pena di morte e la concessione dell'asilo al capo del Pkk arrivò dalla magistratura troppo tardi. Il 16 gennaio ‘99 Ocalan fu convinto a partire dall'Italia per Nairobi dove un mese dopo venne catturato dai servizi turchi. In questi trent'anni la peggiore disgrazia che poteva capitare a una famiglia turca era avere un giovane reclutato per il servizio militare nel Kurdistan: le immagini trasmesse dalla tv di stato delle bare dei soldati avvolte nella bandiera nazionale e quelle dei funerali dei soldati caduti sono state una drammatica costante per un'intera generazione.

Dall'altra parte, sul fronte curdo, questo conflitto è una ferita sanguinante. Ogni tanto qualcuno a Diyarbakir sparisce. I giovani della "sherildan", il nome curdo per intifada, si uniscono ai 5mila guerriglieri del Pkk, i peshmerga, o vengono arrestati dall'esercito. Scompaiono e riappaiono, dalle montagne o dalle carceri. Oppure fanno traffici con l'altra parte, il Kurdistan iracheno, che con il petrolio è diventato la faccia felice dei curdi.

Dall'84 ci sono stati tremila villaggi bruciati, un milione e mezzo di profughi, migliaia di miliziani e civili uccisi. E per questa Turchia, che aspira a diventare sempre di più protagonista del Medio Oriente, l'Anatolia del Sud Est ha costituito una vera spina nel fianco in una regione strategica per le riserve idriche - qui ci sono le grandi dighe del progetto Gap – sulla rotta delle pipeline del petrolio e del gas, all'incrocio con Iran, Iraq e Siria, altri Paesi in perenne ebollizione dove si contano forti minoranze di curdi: 30-40 milioni in tutto, un altro popolo senza Stato, che vide il Kurdistan soltanto una volta, disegnato sulle mappe del Trattato di Sévres e cancellato poco dopo da quello di Losanna del 1923 da cui inizia la storia della Turchia moderna.

Per risolvere la questione curda il premier Erdogan si è detto anche pronto a «bere veleno» pur di arrivare alla pace. Un obiettivo di grande prestigio che gli garantirebbe di non avere avversari nell'elezione a capo dello stato prevista l'anno prossimo con una probabile riforma presidenzialista della costituzione. Non meraviglia che Ocalan sostenga adesso le ambizioni del suo ex nemico Erdogan e sia diventato il suo grande elettore.

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