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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2013 alle ore 19:40.

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Se da ieri i fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono di nuovo a New Delhi, circondati da un clima più ostile di quello che si erano lasciati alle spalle lo scorso febbraio, lo devono solo in parte alla sconcertante catena di errori commessi da tutti gli attori coinvolti in una vicenda in bilico tra farsa e tragedia.

Una parte delle responsabilità va fatta risalire anche al decreto legge del 12 luglio 2011 che ha aperto la strada all'imbarco dei militari sulle navi civili battenti bandiera italiana e alla convenzione dell'11 ottobre dello stesso anno tra il ministero della Difesa e la Confederazione italiana armatori (Confitarma). È nell'articolo 5 del decreto legge e nei sette articoli che compongono l'accordo tra militari e armatori che si aprono le prime falle in cui sono scivolati prima i due marò e poi un pezzo della credibilità internazionale dell'Italia.

Ma andiamo con ordine. A infilare i due fucilieri nel tunnel della giustizia indiana è stata innanzitutto la decisione di fare entrare in un porto indiano la Enrica Lexie, nonostante l'incidente al centro delle indagini fosse avvenuto al di fuori delle acque territoriali di New Delhi.

«La prima ambiguità - spiega una fonte diplomatica - va fatta risalire alla creazione di una situazione in cui dei militari, impegnati per conto del proprio Paese in una missione internazionale, si trovano in servizio a bordo di un'imbarcazione di proprietà di un armatore che paga il ministero della Difesa per il servizio di protezione che riceve. Equiparando di fatto i militari a contractor privati».

La presenza di militari a bordo per sua stessa natura ha finito per creare una situazione poco chiara circa la catena di comando sulla nave. A tale proposito la convenzione tra ministero della Difesa e armatori fa chiarezza solo in parte.
Il documento che dovrebbe spiegare, nel dettaglio, chi decide cosa, intacca solo in minima parte le prerogative del comandante della nave, attribuendo al nucleo militare di protezione solo «le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria limitatamente alle operazioni compiute nella repressione di un attacco dei pirati, ferme restando, per il resto, le attribuzioni del Comandante della nave».

Un concetto ribadito anche dove il documento parla esplicitamente del fatto che «le scelte inerenti la navigazione e la manovra della nave saranno di competenza del comandante che si orienterà alle pratiche marinaresche e a quelle altresì raccomandate dall'International Maritime Organization».

Una formulazione che non dovrebbe lasciare dubbi circa la responsabilità di chi ha deciso che la Enrica Lexie attraccasse a Kochi, rendendo possibile l'arresto dei due marò. Ma qualche perplessità sulle responsabilità del ministero della Difesa resta comunque. Anche perché tra i doveri dell'armatore enumerati dalla convenzione c'è quello di offrire ai militari a bordo «servizi di comunicazione per lo scambio di informazioni con la catena di comando e controllo nazionale», oltre che l'obbligo a «informare tempestivamente il Comando in capo della squadra navale della Marina militare di ogni possibile implicazione per lo sbarco del nucleo militare di protezione in relazione alla rotta della nave».
Norme che, unitamente al silenzio del ministero della Difesa sulla vicenda, danno adito al sospetto che le gerarchie militari non fossero del tutto all'oscuro della catastrofica decisione di attraccare in Kerala e consegnare di fatto i marò alle autorità indiane.

Una volta commesso questo grave errore tattico, secondo la fonte diplomatica interpellata dal Sole 24 Ore, l'intera partita è stata giocata in maniera infelice. Prima «non richiamando l'attenzione internazionale sul vulnus arrecato alla lotta alla pirateria dalla mossa indiana», poi sul piano negoziale «continuando a tenere un atteggiamento buonista» e quindi «piegandosi dopo un'iniziativa come la violazione della Convenzione di Vienna da parte di New Delhi. Con il risultato di confermare l'immagine di un Paese fragile e incapace di esprimere autorità e senza ottenere alcun vantaggio». Anche perché le assicurazioni circa il fatto che in caso di condanna i due marò non saranno mandati al patibolo sono poca cosa, dato che in India la pena di morte è comminata, per volere della Corte Suprema, solo «in the rarest of rare cases».

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