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Questo articolo è stato pubblicato il 11 aprile 2013 alle ore 08:20.

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Una visuale del palazzo che ospita gli uffici della Procura di Reggio Calabria. (Ansa)Una visuale del palazzo che ospita gli uffici della Procura di Reggio Calabria. (Ansa)

Il protocollo ha origine greca: era il primo foglio incollato di un rotolo. Importante sì, ma mai come il contenuto da srotolare.
Così è – da allora – per qualunque protocollo: senza contenuti e, soprattutto, senza seguito, rimane solo una dichiarazione di intenti.
Quello siglato il 21 marzo tra tutti gli uffici giudiziari del distretto della Corte d'appello di Reggio Calabria (Reggio, Palmi e Locri) farà scuola. L'obiettivo è quello di realizzare interventi giudiziari coordinati a tutela dei minorenni disagiati, autori o vittime di reati della provincia, devastata dalla capillare presenza di organizzazioni criminali a struttura familiare, dove la cultura di ‘ndrangheta rientra tra i fattori degenerativi della crescita dei giovani.

Non c'è affatto da meravigliarsi se è un distretto calabrese a tenere in mano il pallino di una rivoluzione (possibile) nei rapporti tra uffici giudiziari, famiglie criminali e figli ad alto rischio.
Il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria a settembre 2012 adottò per primo in Italia la linea dura per strappare ad un destino comunque mortale i minori delle famiglie di mafia. I giudici Roberto Di Bella e Francesca Di Landro, su richiesta del pm minorile Francesca Stilla, emisero «un provvedimento limitativo della potestà genitoriale» e nominarono per un 16enne un curatore speciale, visto «il conflitto di interessi tra lui e la madre incapace di indirizzarlo al rispetto delle regole civili e tutelarlo». Lo stesso Tribunale ritenne «indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità da reperirsi fuori dalla Calabria, i cui operatori professionalmente qualificati siano in grado di fornirgli una seria alternativa culturale».

Per i giudici minorili, infatti, «è l'unica soluzione per sottrarre» il 16enne «a un destino ineluttabile, e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza», nella speranza che «possa affrancarsi dai modelli parentali sinora assimilati».
Il 18 gennaio di quest'anno il Tribunale dei minorenni ha disposto l'invio presso una comunità di un adolescente inserito in una famiglia appartenente ad una delle principali consorterie mafiose della provincia reggina, affidandolo di fatto e di diritto ai servizi sociali. Il provvedimento, confermato dalla Corte d'appello, ha una motivazione semplice come acqua sorgiva: tentare di recuperare i giovani, costretti a subire il pregiudizio dall'ambiente "mafioso" di provenienza, attraverso un percorso di rieducazione sociale. «Un concreto contributo – spiegò il questore di Reggio Calabria Guido Longo - volto ad arginare in via preventiva il fenomeno mafioso agendo sulle condizioni di vita dei giovani ed offrendogli una opportunità alternativa».

Il protocollo giunge ora a mettere in chiaro che la finalità della Giustizia è quella di arginare preventivamente la cultura mafiosa, agendo sulle condizioni di vita dei giovani. Tecnicamente il documento prevede:
1. un circuito comunicativo che attivi procedure civili e penali a tutela dei minori, in parallelo o all'esito dei procedimenti per reati di criminalità organizzata;
2. un coordinamento tra gli uffici inquirenti e gli uffici giudiziari minorili, finalizzato all'adozione di tempestive misure a tutela dei minori di soggetti sottoposti a misure di protezione o che intraprendono percorsi di collaborazione con la giustizia;
3. un coordinamento tra gli uffici giudiziari nei procedimenti penali per reati commessi in concorso da maggiorenni e minorenni, con l'obiettivo di razionalizzare le risorse e evitare superflue duplicazioni di attività probatorie;
4. una cooperazione nei procedimenti penali e civili per reati sessuali e/o di maltrattamenti a danno dei minori, finalizzata a concentrare in un'unica soluzione l'audizione della vittima per evitarne ripetuti e traumatici esami.

Peccato che, mentre tutti gli uffici del distretto giudiziario giungevano a questo "storico" accordo, la Camera minorile distrettuale di Reggio Calabria, il Centro comunitario Agape-Libera e il Centro giovanile Don Italo Calabrò, abbiano comunicato che la Regione Calabria e l'Asp di Reggio hanno rinunciato all'ultimo momento e dopo un lavoro di 12 mesi, alla costituzione di un'equipe integrata e interdisciplinare con l'obiettivo di svolgere e presiedere a tutte le indagini psico-sociali nei procedimenti che riguardano i minori, nonché alla coordinata esecuzione dei provvedimenti civili, amministrativi e penali emessi dal Tribunale per i Minorenni. Mancherebbero soldi e personale. I soldi – quando vuole – la Regione Calabria li trova e comunque, sottolinea la Camera penale, «risulterebbe dalla lettura della pianta organica che esistono presso l'Asp di Reggio Calabria circa 120 operatori che hanno il profilo professionale idoneo a ricoprire i ruoli previsti nella prevista equipe di specialisti».
r.galullo@ilsole24ore.com

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