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Questo articolo è stato pubblicato il 03 maggio 2013 alle ore 16:51.

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Separare le due cariche di segretario del partito e di candidato premier: una soluzione alla crisi del Pd che sembra ormai cosa certa. L'assemblea dell'11 maggio che dovrà nominare il successore pro tempore di Pier Luigi Bersani in vista del congresso d'autunno avvierà il percorso per modificare lo statuto veltroniano, che prevede appunto la coincidenza di leadership e premiership. Un po' l'esigenza di mettere in sicurezza il neo premier Enrico Letta alle prese con la difficile navigazione del suo governo di larghe intese. Un po' l'esigenza di mettere in sicurezza il futuro possibile candidato premier Matteo Renzi, che non ha mai nascosto la sua poca propensione a fare il segretario del partito. Un po' l'esigenza di rassicurare la sinistra del partito con una leadership più di "appartenenza". Ma così non si rischia di decidere in base alla contingenza senza guardare alla prospettiva del Pd? «Io sono molto perplesso», dice il senatore liberal Giorgio Tonini, uno dei più leali sostenitori del governo Monti prima e poi schierato con Matteo Renzi contro Bersani nella corsa per la premiership di novembre e dicembre.

È la fine del modello veltroniano di partito a vocazione maggioritaria, senatore Tonini?
La coincidenza di leadership e premiership è il cuore di un grande partito che vuole candidarsi alla guida del Paese, sennò a che cosa serve il leader? Temo che stia riprendendo piede la vecchia idea, retaggio della prima repubblica, secondo la quale sono i segretari dei partiti ad avere il vero potere mentre il governo è debole, ma con la nascita del Pd abbiamo voluto liberarci proprio di questo retaggio. È naturale che le due cariche coincidano, come è in tutta Europa. Con la sola eccezione della Francia, dove le primarie – in virtù del semipresidenzialismo – servono a scegliere il Capo dello Stato: l'ultima volta Francois Hollande, che pure aveva guidato il Psf per 12 anni, ha vinto le primarie contro la leader del suo partito Martine Aubry. Ma allora bisogna optare, e io ne sarei felice, per il semipresidenzialismo alla francese: ossia doppio turno di collegio con elezione diretta del presidente della Repubblica. Separare leadership e premiership prima di aver capito in che tipo di cornice si svolgerà il confronto politico dei prossimi anni, se semipresidenzialismo o sistema parlamentare corretto, è un errore.

Ma forse la separazione delle due figure è l'unico modo per tutelare il democratico Enrico Letta e il suo governo. Altrimenti si tornerebbe al dualismo Prodi-Veltroni del 2007.
Capisco l'esigenza di tutelare Letta. Ma la sua permanenza a capo del governo di larghe intese è, come lui stesso ha ben spiegato nel discorso di insediamento, una condizione di transizione che deve portare il Paese verso un nuovo bipolarismo, mite e costruttivo. Non è certo una soluzione stabile. Non ristruttererei il partito in funzione di questa situazione. Sono stato uno dei più convinti sostenitori, visti i risultati elettorali, della soluzione delle larghe intese. Ma quello di Letta non è il "nostro" governo, e funziona nella misura in cui fa presto e bene le cose che è stato chiamato a fare in modo da poter tornare ad una sana competizione tra gli schieramenti.

Anche a Renzi, però, sembra stare bene la divisione dei ruoli: il segretario da una parte, il candidato premier dall'altra. Renzi non ha mai nascosto di non essere interessato a gestire il partito.
Quello che mi sento di dire a Renzi è che così rischia di confondere la tattica con la strategia. Se con Bersani non abbiamo vinto le elezioni è proprio perché abbiamo rinunciato alla vocazione maggioritaria ricercando alleanze a sinistra che si sono rivelate fallimentari. Dobbiamo riprendere la strada maestra della vocazione maggioritaria individuando una leadership che parli al Paese e proprio per questo si candida a governare. E l'idea di una divisione dei compiti, ossia il partito a una figura che sappia puntellare a sinistra e la premiership a Renzi in quanto capace di parlare al campo avverso, rischia di farci ripetere proprio quegli errori che ci hanno portato alla sconfitta.

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