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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2013 alle ore 08:23.
Il suo potenziale geostrategico è enorme. Senza il Pakistan non ci può essere la pace in Afghanistan e naturalmente neppure con l'India, lo storico rivale. In vista del critico ritiro da Kabul nel 2014 degli americani e dei Paesi della Nato come il nostro, che ha un importante contingente militare a Herat, la diplomazia sta corteggiando il capo di stato maggiore Ashfaq Kayani per tentare una quasi impossibile stabilizzazione.
È una sfida formidabile, come ha dimostrato l'uccisione due anni fa da parte delle forze speciali americane di Osama bin Laden ad Abbotabad, in una casa che fronteggia la West Point pakistana. In Pakistan l'istituzione centrale sono le forze armate e al loro interno l'Isi, l'intelligence militare, è una sorta di stato nello stato che ha la sua sede in un anonimo edificio nel centro di Islamabad. Fu qui che negli anni '80 venne forgiata dal generale Zia ul Haq l'alleanza tra militari e islamici per condurre la Jihad contro i sovietici in Afghanistan finanziata da sauditi e americani: era la famosa Operazione Ciclone.
All'Isi fu assegnato il compito negli anni '90 di sostenere i Talebani del latitante Mullah Omar con il fervente appoggio di Nasrullah Babar, ministro dell'Interno di Benazir Bhutto, assassinata poi dagli estremisti nel 2007. Sono i militari e l'Isi che dall'11 settembre 2001 hanno gestito i 20 miliardi di dollari di aiuti americani versati al presidente Pervez Musharraf, oggi miseramente agli arresti domiciliari.
Ma da bastione occidentale durante la guerra fredda, il Pakistan si è trasformato nel più insidioso degli alleati di Washington. Ha fatto la lotta al terrore, ospitando le basi Usa ma ha anche sostenuto i radicali islamici per assicurarsi la "profondità strategica" in Afghanistan.
Doppio gioco? Possiamo anche definirla una "realpolitik" spinta al limite estremo. «Le forze armate non considerano la caccia ai talebani una priorità. Il nemico principale è l'India e gli aiuti americani sono stati dirottati su questo obiettivo», mi diceva tempo fa il giornalista e scrittore Ahmed Rashid. Nawaz Sharif intende interrompere la collaborazione con gli americani: niente più basi, niente raid aerei dal Pakistan. La pensa più o meno allo stesso modo anche l'ex campione Imran Khan, che vuole la pace con i talebani.
Sono dichiarazioni che non stupiscono. «Accompagnai Sharif negli anni '90 a un incontro con Bin Laden al Green Palace di Medina», racconta Khalid Khawaja, che ha diretto il desk Afghanistan all'Isi. Osama gli chiese se amasse la Jihad: «Certamente, rispose Sharif». Osama allora gli tagliò davanti tre diverse porzioni di riso. «Questa è la più grande: rappresenta l'amore che nutri per i tuoi figli, questa di dimensioni inferiori è l'amore che hai per i tuoi genitori, la più piccola indica la tua devozione per la Jihad».
Sharif chiedeva 8 milioni di dollari per la sua campagna elettorale: ne ottenne qualcuno di meno e il resto gli fu dato dalla casa reale saudita. Come dimostra la storia di Sharif, qui i fondamentalisti non sono affatto riluttanti e puntano diritti al potere. Ma tutto il Pakistan, direbbe Mohsin Hamid, il brillante scrittore di Lahore, è una sorta di parabola sulla precarietà del destino degli uomini e delle nazioni.