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Questo articolo è stato pubblicato il 28 maggio 2013 alle ore 06:37.

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C'è quello che si vede. E c'è quello che non si vede. La questione industriale italiana si trova all'incrocio fra il rumore del dramma che attira l'attenzione di tutti e il silenzio che nella quotidianità uccide - o almeno indebolisce - il cuore dell'impresa del nostro Paese.



C'è il collasso giudiziario-industriale dell'Ilva. A cui corrisponde il boato sordo che, avendo come epicentro lo studio del commercialista Mario Tagarelli in Via Principe Amedeo a Taranto, ormai dominus formale dell'ottavo gruppo siderurgico al mondo, sale da Taranto e investe tutta la nostra manifattura. Ci sono gli americani di Alcoa che lasciano il Sulcis Iglesiente per il costo dell'energia. La loro decisione fa il paio con il sibilo delle pale dell'elicottero con cui, il 13 novembre dell'anno scorso, gli allora ministri Passera e Barca lasciarono - in fuga da una sorta di Saigon della politica industriale approssimativa e declaratoria - una Sardegna inferocita. Ci sono i giapponesi di Bridgestone, convinti (per ora) a non chiudere lo stabilimento di Bari - giudicato poco competitivo dal punto di vista della tecnologia e della produttività - da una mezza sollevazione popolare e (soprattutto) dai soldi pubblici regionali, che dovrebbero coprire un terzo dei 10-12 milioni di investimenti necessari per migliorarlo.
Il problema, però, è quanto si muove sotto la pelle, nei gangli più nascosti, di quel complesso, e delicato, organismo manifatturiero che è l'Italia industriale. Quello che non si vede. Quello che non si sente.
Prima di tutto, c'è un problema nella qualità del suo sangue finanziario. Lo strategico rapporto banca-impresa, infatti, sembra ancora arenato. Il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, invita da tempo gli istituti di credito a non trattenere la liquidità ottenuta dalla Bce. Nella normalità operativa delle nostre piccole e medie imprese, come in quella dei gruppi italiani e stranieri insediati nel nostro Paese, le cose allo sportello non vanno benissimo. Anzi. L'ultima simulazione compiuta dal Centro Europa Ricerche (in particolare dall'economista Antonio Forte) mostra come, l'anno scorso, siano mancati all'appello - in termini di minore erogato effettivo - 113 miliardi di euro (31,3 miliardi alle famiglie e, appunto, 81,7 miliardi alle imprese). La tendenza viene confermata anche nel primo trimestre di quest'anno: la perdita di credito reale è stimata in 20 miliardi di euro, di cui 12,5 miliardi per le imprese.
Il sangue del credito, dunque, è tutt'altro che abbondante. E ha una qualità peggiore rispetto a quello che finisce in circolo nelle arterie dei sistemi industriali concorrenti. Basti pensare che, secondo Business Europe, il tasso di interesse praticato sui fidi a un anno in Italia è pari al 4,3%, contro il 2,9% riscontrato in Germania. Lo stesso vale su un orizzonte temporale maggiore: stando all'ultima rilevazione della Bce (marzo di quest'anno), per i prestiti fino a un milione di euro, da uno a cinque anni, il tasso ottenuto da un imprenditore tedesco nella sua Hausbank è del 3,58%, mentre un nostro connazionale deve pagare il 5,83%, addirittura più di un suo concorrente spagnolo, che nonostante appartenga a una economia di dimensioni minori rispetto alla nostra, si ritrova a corrispondere un interesse del 5,63 per cento.

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