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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2013 alle ore 06:39.

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Fmi, lunga catena di errori

Quanti errori... In Grecia, come ha ammesso il Fondo monetario internazionale (Fmi); ma anche a Cipro, dove è stato catastrofico il mancato intervento della troika, che non ha bloccato il governo di Nicosia quando ha voluto tassare gli stessi conti correnti assicurati dall'Unione europea, quelli inferiori ai 100mila euro.

Poi si può discutere di Portogallo e Irlanda - perché no? - o della Spagna, non certo inadempiente sul piano fiscale con il suo debito; e persino dell'Italia e delle sue piroette politiche. Si può ricordare l'intervento tedesco del 2010 sul divieto delle vendite allo scoperto e sulle operazioni di credit default swaps, che ha solo disordinatamente trasferito gli scambi a Londra; all'aumento dei tassi della Bce del 2011 che inviò ai mercati, nel momento sbagliato, il segnale della fine della politica espansiva; o quello del luglio 2008, quando il petrolio era a 146 dollari ed erodeva la crescita, deciso solo per "lanciare un messaggio" ai sindacati tedeschi a trattative appena aperte.

Volendo si può andare anche indietro. Alla clemenza usata nel 2005 con Francia e Germania colpevoli di aver sforato il 3% nel rapporto deficit/pil (un altro cattivo esempio). Persino, per tornare a parlare del terzo triumviro della troika, l'Fmi, si può rievocare la crisi argentina, o quella asiatica, che ha insegnato molte cose alle economie dell'Estremo Oriente – ora piuttosto brave nella prevenzione dei rischi macroeconomici - ma poche, evidentemente, a tutti gli altri.

La gestione macroeconomica delle crisi lascia molto a desiderare, e da tempo. Il nostra culpa degli economisti del Fondo testimonia l'onestà intellettuale di quegli analisti – la stessa che li spinge a riconsiderare il peso delle diseguaglianze nella crescita e nell'efficienza economica, o a rivalutare i controlli di capitale - ma corre il rischio di creare solo un capro espiatorio: la Commissione Ue e la Bce, su cui molte cose si potrebbero dire, hanno seccamente respinto l'invito a condividere le responsabilità.

Anche cercare le colpe può però diventare sterile. Si può cadere nel paradosso di Bossuet: («Dio ride degli uomini che si lamentano delle conseguenze mentre alimentano le cause»), senza risolvere i problemi. Il vero nodo, in realtà, è il fatto che gli errori, in un certo senso inevitabili, vengano riconosciuti sempre troppo tardi. Soprattutto se si tiene conto della massa degli economisti che, magari usando una metodologia effettivamente troppo semplicistica, possono però rivendicare a buon diritto: "L'avevamo detto, no?".

La cosa che dovrebbe far pensare è che l'errore nelle politiche di risanamento è quasi sempre lo stesso: una preferenza di fatto per i creditori. Come se non toccasse a loro un'attentissima valutazione dei rischi - conoscono molto meno cose dei debitori sulle operazioni che finanziano - e come se nel "prezzo" che ottengono, il tasso di interesse, non fosse compreso anche un premio per questi rischi. Eppure è così: l'intero impianto della politica economica attuale – dall'inflation targeting della politica monetaria alla struttura del sistema finanziario globale – favorisce i creditori. Tra i quali non ci sono, val la pena di sottolinearlo, le imprese e i governi, ma i lavoratori dipendenti (finché conservano il posto di lavoro...) e soprattutto i risparmiatori, i capitalisti, e i rentiers.

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