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Questo articolo è stato pubblicato il 02 luglio 2013 alle ore 11:47.

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(AFP)(AFP)

I generali in Medio Oriente sono la soluzione o una parte del problema? La domanda è in primo piano dopo l'ultimatum, respinto, delle forze armate egiziane al presidente Mohammed Morsi. Questo sarebbe il loro secondo intervento in due anni perché fu il Feldmaresciallo Tantawi a prendere in mano la situazione nel 2011 costringendo Mabarak alle dimissioni. L'anziano generale, 80 anni - che poi dovette lasciare anche lui nell'agosto del 2012 - durante la prima rivoluzione montò su una jeep sfilando lungo il Nilo vicino a Tahrir: fu il segnale atteso che i militari avevano scelto di stare con la piazza e di abbandonare Mubarak al suo destino.

In cambio dell'appoggio alla rivoluzione le forze armate hanno continuato a conservare i loro privilegi del nuovo Egitto dove pure hanno in mano leve economiche importanti, dalle fabbriche del complesso militar-industiale a un sistema autonomo di welfare state che garantisce notevoli vantaggi agli uomini in divisa. L'Egitto, è utile ricordarlo, riceve dagli Stati Uniti tre miliardi di dollari l'anno di aiuti militari, una cifra inferiore soltanto a quella erogata da Washington all'alleato israeliano. Anche per questo motivo nelle cancellerie si ripete come un mantra: «Too big to fail», l'Egitto è troppo importante negli equilibri regionali per essere lasciato spofondare nel caos.

In questo quadro poco è cambiato con l'uscita di scena di Tantawi sostituito ai vertici dal generale Abdel Fattah Al Sisi diventato anche ministro della Difesa. Al Sisi, sessantenne, è un generale che in passato ha sempre agito nell'ombra come si conveniva al suo ruolo di capo dell'intelligence militare: ha studiato a Washington e sembra sia in ottimi rapporti con il Pentagono. Non è un caso che oltre alla telefonata di Barack Obama a Morsi ieri ce ne sia stata anche una del capo di stato maggiore americano proprio ad Al Sisi: un segnale che gli Stati Uniti lavorano, come sempre, su un doppio binario.

Le forze armate gestiscono nell'ombra il potere da sessantanni, da quando andarono al governo nel 1952 con il colpo di stato degli ufficiali Neguib e Nasser - al quale partecipò anche Anwar Sadat - che abbatterono la monarchia di re Faruk: da allora, Mubarak compreso, tutti i presidenti egiziani sono stati dei militari, tranne l'ultimo, Mohammed Morsi, espressione dei Fratelli Musulmani, storicamente in conflitto con i generali.

I militari egiziani, pur non avendo mai vinto una guerra - cocente fu la sconfitta del '67 con Israele - godono del favore popolare perché rappresentano un baluardo anche simbolico dell'unità del Paese. Ma sono in grado di gestire la crisi? I generali fanno comunque parte della classe dirigente fallimentare di questo Paese e portano anche loro pesanti responsabilità avendo avallato le decisioni politiche ed economiche di Mubarak: sono però stati abili a restare dietro le quinte per 30 anni e quindi a non condividere apertamente un bilancio disastroso, ora aggravato dall'incompetenza dei Fratelli Musulmani.

In Medio Oriente l'intervento delle forze armate è una tradizione consolidata. In Turchia hanno condotto tre colpi di stato ed estromesso nel '97 il governo del premier islamico Necmettin Erbakan: anche per questo il primo ministro Tayyep Erdogan ha fatto di tutto in questi anni per relegarli ai margini, favorito anche dalle richieste di democratizzazione avanzate dall'Unione europea.

In Algeria i generali, usciti dala lotta di liberazione anti-francese, sono stati sempre decisivi: nel gennaio '91 presero direttamente il potere escludendo con la forza il Fronte islamico di salvezza, Fis, che aveva vinto il primo turno delle elezioni politiche. Iniziò così la guerra civile algerina durata un decennio con oltre 200mila morti. E ora che il presidente Abdel Aziz Bouteflika si trova da mesi in cura a Parigi è ancora agli apparati militari e di sicurezza che si guarda per una possibile transizione del potere.

Anche in Tunisia i militari hanno avuto una parte importante nella caduta di Ben Alì. L'esercito si rifiutò di intervenire contro i manifestanti nel gennaio 2011 determinando quindi la fuga del dittatore. Nella stessa Siria, forse sarebbe meglio dire ex Siria, le forze armate sono state sempre in primo piano: dalla fine del regime coloniale francese prima di arrivare nel 1970 alla dittatura di Hafez Assad, un generale dell'aviazione, si sono succeduti una mezza dozzina di colpi di stato. E' comunque la struttura militare che adesso ha in mano i brandelli rimasti dello stato siriano.

In Egitto i militari potrebbero rivestire in questa crisi il ruolo di ponte tra il governo Morsi e uno ad interim destinato ad aprire la strada, entro qualche mese, a nuove elezioni presidenziali e politiche: i generali vogliono disarcionare il persidente, come chiede Piazza Tahrir, ma saranno capaci di attuare una transizione senza spaccare ulteriormente il Paese? La risposta forse l'avremo in poche ore.

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