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Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2013 alle ore 08:25.

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IL CAIRO. Dal nostro inviato
Solo un chilometro in linea d'aria e il Nilo separano due idee e due mondi diversi. Sulla sponda orientale, lato piazza Tahrir, quelli convinti che il golpe sia una liberazione; sulla riva opposta, a Giza dove c'è l'Università, quelli certi che la liberazione sia un colpo di stato. Un vincitore e un vinto, due mobilitazioni, due collere e quattro morti (almeno 17, secondo il ministero della Sanità, in tutto il Paese) che si aggiungono alla cinquantina di una settimana da ricordare. Per essere credibile davanti agli egiziani e al mondo preoccupato, il nuovo regime decide rapidamente. Il nuovo presidente a interim Adly Mansour dissolve l'ultima istituzione a maggioranza Fratelli musulmani, la Camera alta, e nomina un nuovo capo dei servizi di sicurezza. Ritorna a parlare di "dialogo nazionale". Bene. Ma il dubbio se sia golpe o altro non è una questione di poco conto.
«Ho votato sette volte, per sette volte hanno vinto i Fratelli musulmani. E ora mi dicono che non era democrazia: hanno trasformato in un grande scherzo due anni e mezzo di rivoluzione», dice un medico. Parla ad alta voce per farsi sentire in mezzo a una delle due grandi manifestazioni, quella all'Università, organizzata nel "giorno del rifiuto" dalla fratellanza. E parla in inglese. C'è chi vuole dire la sua in francese o tedesco. E chi in italiano, come Mohamed Adel che esporta marmo in Italia: «Hai visto che casino che hanno fatto i generali?». È questa la truppa scelta della repubblica islamica che stavano preparando i Fratelli? Una rivoluzione con donne e bambini? Entrare in mezzo ai manifestanti dopo aver superato il cordone del servizio d'ordine - stessa organizzazione di piazza Tahrir nella quale hanno militato anche loro, in questa rivoluzione sincopata dove i ruoli cambiano così in fretta - significa scoprire un mondo diverso da quello che viene raccontato da qualche giorno. La cosa più facile è parlare con la gente. Sono loro che vogliono farlo. Hanno ansia di spiegare, di uscire da un isolamento nel quale sono convinti di essere finiti. Forse non si accorgono di ammettere una confitta: «Il Cairo non è tutto l'Egitto», «Noi abbiamo solo sassi per difenderci, loro le armi». Un giovane affida un messaggio per Barack Obama: «La legittimità è nostra. Scrivi, faglielo sapere».
Quale è la verità di questa rivoluzione, se ne esiste una sola? Protagonisti e osservatori, siamo tutti vittime della propaganda del vincitore che nega allo sconfitto la sua parte di verità. Ieri i vincitori erano gli islamisti. L'assenza di televisioni egiziane alle loro manifestazioni spiega chi vince adesso: i 17 canali islamici sono stati chiusi, gli altri sono in piazza Tahrir. Forza della propaganda. Arriva un'altra notizia: coprifuoco nella penisola del Sinai. È un'altra storia: non riguarda la fratellanza né il golpe. Si dice che all'altra manifestazione, davanti alla moschea di Rabaa al-Adawiya nel quartiere di Nasr City, ci siano stati quattro morti della fratellanza. La tv di Stato nega. La testimonianza di Jeremy Bowen, solido inviato della Bbc, rimasto ferito nello scontro, conferma: i morti ci sono stati. Si erano avvicinati troppo al filo spinato che protegge il circolo ufficiali della Guardia repubblicana, dove sarebbe custodito Mohamed Morsi. I manifestanti non volevano prenderla d'assalto, i soldati non volevano sparare. Ma è accaduto. Uscendo dalla zona dell'Università un automobilista di passaggio si ferma e chiede: «Perché è andato lì? Sono tutti terroristi». Poco prima i manifestanti dicevano che con gli altri «l'Egitto non sarà più musulmano». Stessa bandiera, stessa rivoluzione, lingue diverse.

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