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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2013 alle ore 16:42.

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Se il «profit shifting» permette a Google di beffare l'Erario

In inglese si chiama profit shifting. Mettendo da parte l'aplomb britannico, in italiano si potrebbe tradurre con elusione fiscale. Letteralmente si tratta della strategia tributaria adottata da quelle multinazionali che spostano i loro redditi negli Stati dove vige il regime fiscale più vantaggioso. In questo modo, attraverso pratiche lecite, riescono a minimizzare le tasse pagate, sfruttando le scappatoie offerte dai trattati contro la doppia imposizione. Insomma, accordi pensati, scritti e ratificati per evitare che gli utili d'impresa siano tassati due volte, finiscono, nei casi più estremi e paradossali, per permettere ai gruppi più spregiudicati di non pagarle quasi per niente. In tempi di austerity e sacrifici per lavoratori, pensionati e Pmi, il profit shifting non poteva non finire nel mirino. Così, ieri, i Paesi del G-20 hanno approvato il piano elaborato dall'Ocse per impedire queste strategie. Insomma per evitare, tanto per fare un esempio, a colossi come Google di pagare al Fisco italiano appena 1,8 milioni di euro nel 2012 (come nel 2011), attraverso la controllata Google Italy, secondo quanto riportato dall'Ansa.

Le strategie fiscali del colosso di Mountain View - un fatturato nel mondo da 50 miliardi di dollari e un utile di oltre 10 - sono nel mirino di molti Paesi europei. Il fatturato di Google Italy, che nel 2012 ha realizzato 52 milioni di ricavi e un utile di 2,5 milioni, è rappresentato quasi esclusivamente da servizi prestati alla filiale irlandese Google Ireland, vera macchina da soldi che incassa i ricavi pubblicitari del gruppo.

Attraverso una attenta pianificazione fiscale, Google è riuscita già in passato a limitare al minimo il pagamento delle tasse e a mandare su tutte le furie Gran Bretagna, Francia e Italia, nelle cui casse versa importi irrisori. Nel novembre del 2012, l'allora sottosegretario all'Economia, Vieri Ceriani, rispondendo a un'interrogazione parlamentare, aveva annunciato l'avvio da parte della Guardia di Finanza di una verifica straordinaria sulla filiale italiana, mentre l'Agenzia delle Entrate era al lavoro sull'esito di una precedente ispezione, da cui era emerso che, tra il 2002 e il 2006, Google Italy aveva registrato redditi non dichiarati per circa 240 milioni (con un bel risparmio di 70 milioni sulle tasse da pagare) e Iva non pagata per 96 milioni di euro. «Google rispetta le normative fiscali in Italia e in tutti i Paesi dove opera», è la pronta difesa di portavoce del gruppo. «Il corporate tax rate della società - spiega - è stato del 20% nel 2012. La maggior parte dei Governi usa gli incentivi fiscali per attrarre investimenti stranieri» e «le aziende rispondono a questi incentivi. È una delle ragioni per cui Google ha stabilito la propria sede europea in Irlanda. Se ai politici non piacciono queste leggi, hanno il potere di cambiarle». Ecco, è proprio quello che il G-20 di Mosca si propone di fare.

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