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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2013 alle ore 08:45.

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C'è chi la chiama «disintermediazione intermediata». Forse suona un po' come le vecchie «convergenze parallele», ma potrebbe diventare un moderno uovo di Colombo per portare indirettamente soldi non bancari alle imprese italiane. Per battere il credit crunch. Sono infatti sempre di più i fondi e gli investitori di tutto il mondo che «fiutano» l'affare del credit crunch italiano e che intendono creare dei fondi d'investimento ad hoc per finanziare le Pmi della Penisola: dall'inglese River Rock all'americana Muzinich, dalle italiane Ver Capital, Riello Sgr, Montepaschi, Popolare di Vicenza, Mediobanca, Bnp Paribas fino – ma si tratta solo di indiscrezioni di qualche tempo fa – alla californiana Ares. Ma i bene informati assicurano che anche altri grossi fondi internazionali abbiano già in agenda incontri in Italia per creare ulteriori iniziative.
Il problema è che in Italia, a differenza dei Paesi anglosassoni, un fondo non può finanziare direttamente un'impresa. L'uovo di Colombo sta dunque nella «disintermediazione intermediata»: la banca aiuta l'azienda ad emettere un mini-prestito obbligazionario (ormai è possibile grazie al recente Decreto Sviluppo) e immediatamente lo vende a uno di questi fondi. Il risultato è lo stesso: il fondo, indirettamente, finanzia l'impresa. Al ministero del Tesoro hanno capito l'importanza del fenomeno, tanto che due settimane fa i tecnici di Via XX Settembre hanno incontrato i principali attori di questo mercato per trovare con loro i modi per agevolarli dal punto di vista normativo e fiscale. Ma in realtà il fenomeno è mondiale. E, sebbene rappresenti una grande opportunità per tutti, non è privo di rischi.
Business «credit crunch»
Per i fondi internazionali finanziare le imprese sta infatti diventando un business. Da un lato il mercato obbligazionario non offre loro più tanto appeal, dato che moltissimi bond hanno rendimenti troppo bassi e volatilità troppo elevata. Dall'altro le banche non sono più in grado di finanziare le imprese come facevano una volta: negli Usa il credito alle Pmi è diminuito dal 2008 al 2013 di 129 miliardi di dollari (da 713 a 584 miliardi secondo la Fdic), in Europa i finanziamenti a tutte le aziende sono scesi negli ultimi due anni di 280 miliardi di euro (da 4.739 a 4.459 secondo i dati Bce) e in Italia nello stesso periodo le imprese hanno perso 45 miliardi di euro di prestiti bancari (dato Bankitalia).
Morale: per i fondi, sempre meno attratti dai bond tradizionali, il finanziamento alle Pmi sta diventando il business del futuro. Le banche si ritirano, loro vanno alla conquista. In America, come ha documentato pochi giorni fa un'inchiesta del «Wall Street Journal», si tratta di un fenomeno ormai dilagante, anche se iniziano ad emergere atteggiamenti da «avvoltoi» (per non dire da «strozzini»): sempre più spesso oltreoceano questi fondi chiedono tassi elevati e stringenti garanzie alle imprese. Si pensi che il tasso medio dei finanziamenti bancari alle Pmi americane a giugno è stato del 5,2%, mentre gli hedge fund attivi in questo business lo scorso anno hanno guadagnato mediamente l'11,7% secondo i dati di eVestment. Ma tra il nulla e il troppo si può trovare una salutare via di mezzo. Anche in Italia.

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