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Questo articolo è stato pubblicato il 04 agosto 2013 alle ore 12:00.

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Dalla Siria al Libano in cerca di libertà: la storia del piccolo Sajed fuggito dalla guerra - Foto

Sajed a scuola ci vuole andare perché è più divertente che stare tutto il giorno nel campo profughi di Marj el Kok tra polvere e calura; sua mamma Zeinab invece chiede a Avsi di aiutare suo figlio affinché fra due mesi, all'inizio dell'anno scolastico, possa iniziare la scuola «quasi come se vivesse una situazione normale». Di normale, però, da queste parti c'è poco: siamo nel Sud del Libano, sotto un sol leone che picchia a 40 gradi. In Italia il caldo torrido di "Caronte" fa notizia, in Libano è la norma in questa stagione. Il campo profughi allestito da Avsi (Onlus italiana con sede a Milano) non fa eccezione. In mezzo alle 150 tende che ospitano circa 180 famiglie scappate dalla guerra di Siria e rifugiatesi ai confini con Israele ci sono anche Sajed e Zeinab.

Flusso continuo. Nel solo mese di giugno scorso, Avsi ha registrato e accolto 2.752 rifugiati. Da inizio anno sono oltre 6mila. Complessivamente l'associazione si occupa di circa 7.500 persone sfollate. I dati ufficiali dicono che dall'inizio della guerra siriana sono scappate in Libano oltre mezzo milione di persone: 456mila registrate e quasi 75mila in attesa di registrazione. Ma secondo il governo di Beirut il numero reale è di almeno un milione. Una vera bomba sociale a orologeria in un Paese di 4 milioni di abitanti. «Come se in Italia arrivassero 15 milioni di profughi» dice Marco Perini, da sei anni e mezzo responsabile dell'Ong Avsi in Libano dopo un'esperienza di sette anni in Rwanda (Africa). A settembre, quando Sajed, forse, potrà frequentare la scuola, si materializzerà un nuovo problema: ai 400mila studenti libanesi potrebbero aggiungersene altri 300mila. Un'emergenza nell'emergenza. Tanto per capirci, in tempi normali e anche ora, parallelamente all'emergenza legata alla guerra siriana, Avis «aiuta circa 1.300 bambini di famiglie bisognose ad andare a scuola - spiega Perini - attraverso il sostegno a distanza di famiglie italiane».

La campagna di solidarietà. Per fronteggiare l'emergenza Avsi ha lanciato di recente la campagna #10forSyria, «Un'iniziativa che invita a donare 10 euro per continuare a sostenere le popolazioni rifugiate» spiega Alberto Piatti, segretario generale della Fondazione Avsi. La campagna si sviluppa su vari canali: dall'utilizzo dei social network al coinvolgimento e alla sensibilizzazione dei media italiani sull'emergenza in corso. «La guerra civile in Siria sta avendo ripercussioni notevoli sui paesi confinanti, in particolare Libano e Giordania dove migliaia di famiglie in fuga dal conflitto si sono rifugiate e continuano ad arrivare ogni giorno. La campagna è nata per rispondere all'emergenza e proseguirà fino al 31 agosto». Per fare degli esempi concreti, con 10 euro si riempie una cisterna da 2mila litri d'acqua, oppure si possono comprare 2 kg di fagioli, altrettanti di riso, di zucchero e due litri d'olio. Sempre con 10 euro si paga un'ora di corso di recupero per un bambino siriano.

L'attività sul campo. La storia di Sajed, 6 anni, figlio di mezzo di altri 4 fratelli e sorelle, colpisce perché per i volontari di Avsi che da 8 mesi lavorano nel campo profughi si tratta di una piccola vittoria: «In questi mesi abbiamo pagato lo scuolabus per 30 bambini che, senza trasporto, non avrebbero potuto andare a scuola. Ma ci siamo immediatamente resi conto che il numero di scolari era troppo basso rispetto a quelli che avrebbero dovuto frequentare le lezioni» racconta Marco Perini. Dai censimenti i bambini in età scolare (4-14 anni) sono circa 300, cioè dieci volte più di quelli cui è stato pagato il trasporto. Così è iniziato un lavoro di sensibilizzazione quotidiano tra una partita di pallone, una chiacchierata con le mamme e una sigaretta di uno dei tanti pragmatici papà che rispondevano «cosa vuoi che cambi? Vedi come viviamo? Siamo senza futuro, figurati se pensiamo alla scuola. Adesso i nostri bambini ci servono perché fanno piccoli lavoretti...». Abdul, il papà di Sajed, scappato da Idlib in Syria 3 mesi fa, non immaginava che quelli Avsi fossero altrettanto cocciuti: «Il papà dice di no? la mamma vorrebbe dire di sì ma ha rispetto dell'autorità del marito? Allora - spiega Perini -lavoriamo al fianco i bambini, facciamo scattare la scintilla della curiosità e poi qualcosa succederà». Sajed è uno dei tanti con i quali la strategia ha avuto successo: instancabile come un martello, ha ripetuto mille «voglio andare a scuola, voglio studiare».
Alla fine Abdul ha ceduto o, forse, ha ritrovato un po' di speranza nel futuro, e ha risposto «va bene, vai a scuola».
«Abbiamo già numerosi bambini che ci chiedono di poter andare a scuola a settembre» racconta Chiara Nava, responsabile dei progetti d'urgenza in Libano e Giordania «e il numero aumenterà sicuramente e anche di tanto». Per questo di recente alcuni rappresentanti di Unicef sono scesi a Marj el Kok per verificare come aiutare. Nel frattempo il personale di Avsi ha comunque deciso di proseguire con le proprie iniziative: «Questi bambini hanno già perso troppo tempo - dice Chiara Nava - Anche se è estate e fa un caldo torrido, abbiamo piazzato una grande tenda e iniziamo a svolgere dei corsi scolastici. Poi a settembre vedremo come fare: a noi piacerebbe che tutti e 300 andassero a scuola, ma a quel punto il problema sarebbe il trasporto quotidiano per i 7 chilometri da percorrere. Sappiamo già che i genitori senza lavoro non possono permetterselo e quindi stiamo riflettendo: o affittiamo noi 10 bus al giorno o portiamo la scuola dentro al campo». Avsi preferirebbe la seconda ipotesi, ma non è semplice: le autorità libanesi non sono così contente di vedere nascere succursali scolastiche qui e là. Non solo. La storia libanese pesa. Forse non si dice ufficialmente ma tra i timori c'è anche quello che i campi profughi possano diventare permanenti, come era accaduto con quelli palestinesi. Dopodiché le uniche cose certe oggi a Marj el Kok sono che Sajed andrà a scuola e «che l'iniziativa #10forSyria lanciata in queste settimane in Italia è indispensabile per poter continuare» sottolinea Marco Perini.

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