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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2013 alle ore 06:42.

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Da qualche giorno il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan saluta abitualmente in pubblico alzando le quattro dita della mano destra, che è diventato tra i militanti islamici il simbolo del massacro dei Fratelli Musulmani nella piazza cairota di Rabaa al Adawiya. Se c'è già stato in Medio Oriente un effetto importante degli eventi egiziani si misura con evidenza proprio nella Turchia del governo islamico Akp che aveva sostenuto, sin dall'inizio, il deposto presidente Mohamed Morsi con il quale erano emersi alcuni contrasti sull'appplicazione dell'Islam nella società ma anche molte affinità ideologiche.
«Non c'è differenza tra Al Sisi e Bashar Assad: tutti e due hanno incendiato le moschee e ucciso migliaia di musulmani innocenti», ha tuonato Erdogan. Ma nelle parole infuocate e amare di condanna del premier brucia la sconfitta subita da Ankara in quell'Egitto dei Fratelli Musulmani al quale la Turchia, insieme al Qatar, aveva fornito generosamente il suo appoggio politico e finanziario (circa due miliardi di dollari).
La debàcle della Turchia al Cairo è ideologica e strategica. E coinvolge direttamente anche l'opposizione siriana alleata di Erdogan che aveva trovato in Morsi un suo grande sostenitore, al punto che prima del colpo di stato il presidente egiziano aveva convocato manifestazioni degli stadi invitando i militanti a combattere la Jihad contro il regime di Bashar Assad. Non solo l'ambasciatore turco è stato richiamato dal Cairo, ma anche il quartiere generale della Coalizione nazionale siriana (Cns) ha chiuso gli uffici in Egitto per trasferirsi a Istanbul.
L'Egitto non è più un'accogliente terra d'esilio per i combattenti siriani che ora, privati di visti permanenti di ingresso e uscita, se ne vanno in Turchia insieme all'ex capo del Cns Moaz al Khatib. Il nuovo regime dei generali sradicatori degli islamici ha dichiarato subito che è pronto a rivedere la decisione di Morsi di congelare le relazioni diplomatiche con Damasco.
È chiaro che per Bashar Assad il colpo di stato egiziano è un aiuto insperato per continuare a restare in sella: il fronte arabo dei suoi nemici si divide. L'Arabia Saudita insieme a Kuwait ed Emirati hanno rifornito le casse esauste dei generali egiziani, sostenuti a piene mani dalle monarchie del Golfo che vedono nei Fratelli Musulmani dei pericolosi contestatori del loro potere assoluto. Non possono essere certamente gli sceicchi del petrolio i fautori dei una svolta democratica dell'Islam politico. Anzi, i loro beniamini in Egitto ma anche nel resto del mondo arabo sono i salafiti, in ascesa in Tunisia e in Libia, fedeli a una versione ultra-conservatrice della religione di Moametto molto vicina a quella della monarchia wahabita di Riad.

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