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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2013 alle ore 15:52.

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(Afp)(Afp)

Tutto vero. Ma ci sono grandi rischi in questo improvviso cambiamento di rotta, non solo per Obama ma per l'America. In teoria non potrebbe esserci dimostrazione di maggiore sicurezza di un attacco annunciato, sospeso nel tempo, con il nemico, avvertito dell'imminente rappresaglia nei minimi dettagli, condannato ad aspettare impotente la sua punizione. C'è poi la questione della legittimità interna. I sondaggi non sono favorevoli. E visto che sul piano militare può attendere, il Presidente vuole chiamare deputati e senatori alle loro responsabilità: ha ricevuto una lettera firmata da 140 deputati che chiedono il dibattito: «Saremo più forti se saremo uniti», ha detto ieri. Al Senato, a maggioranza democratica, il voto favorevole è quasi certo.

Alla Camera Obama punta su una maggioranza trasversale che sappiamo essere possibile. Ma il voto è a rischio, molti democratici sono incerti e la maggioranza è dei repubblicani che potrebbero decidere di sfruttare l'occasione per indebolire ulteriormente il loro avversario politico. Anche perché fra un anno ci sono importanti elezioni politiche che rinnoveranno tutta la Camera e un terzo del Senato. Paralizzare Obama può sembrare molto attraente.

Infine c'è il mondo, la legittimità internazionale. Obama al G-20 conterà gli amici. Sfiderà sul suo stesso terreno Vladimir Putin. Ormai è certo che queto G-20 sarà dominato in tutto e per tutto dalla questione siriana. Tutto fila, con un unico dubbio: riuscirà davvero il Presidente, debole, già ferito da Putin a dominare la dicussione?

L'incertezza non è prova di leadership. Quando chiederà ai capi di Stato e di Governo di dibattere senza rete delle nuove sfide asimmetriche che si affacciano nel nostro futuro, del pericolo che una volta superato un tabù diventi normale usare le armi chimiche oggi e quelle nucleari domani, il pericolo è che i leader ostili, da Putin ai cinesi, usino il G-20 come cassa di risonanza in modo molto diverso da quello che vuole sfruttare Obama.

Il Presidente si appella alla disinteressata solidarietà umanitaria che vuole proteggere bambini dal pericolo di essere gassati dai loro governanti, ripeterà, come ha fatto ieri, che la posta in gioco sul piano globale è altissima se non si farà nulla: qui non si tratta solo di credibilità americana, si tratta di credibilità del mondo civile soffocato dall'asimmetria del terrorismo, dei regimi dittatoriali assoluti, dei bulli che spingono fino a quando non vengono fermati. Ma gli altri, coloro che rappresentano gli interessi siriani, chiederanno di non agire, cercheranno di capitalizzare sulla possibilità di infliggere un doppio colpo all'America e alla sua credibilità già ridotta ai minimi termini. La posta in gioco a questo G-20 è dunque altissima e arriva fino alla credibilità degli Stati Uniti. Se Obama si è convinto che doveva cambiare la dinamica del dialogo con gli alleati, con Paesi come l'Italia che si erano già tirati indietro, ora rischia di essere stoppato su molti più fronti.

Perché sappiamo che il messaggio degli ispettori dell'Onu sarà limitato: diranno solo se sono state usate armi chimiche, ma non devono dire chi le ha usate, chi è il colpevole. Sappiamo che a meno di un miracolo, a San Pietroburgo la Russia continuerà a porre un veto a proposte per una punzione della Siria con autorizzazione del Consiglio di sicurezza.

Ma avendo allungato i tempi del dibattito, Obama l'idealista immagina di poter chiudere tutti, i 20 Grandi e il Parlamento americano, nell'angolo del confronto con le proprie coscienze e con le proprie responsabilità. Se ci riuscirà avrà vinto la battaglia (scommessa?) più importante della sua presidenza. Se fallirà, prima fra i Grandi del mondo e poi a casa, la sua presidenza finirà con tre anni d'anticipo.

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